Fabio Scuto, la Repubblica 15/7/2014, 15 luglio 2014
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME
UNA
delle “sorprese” che Hamas aveva annunciato dopo i missili a lungo raggio lanciati contro Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, ribattezzati J-80 in onore di Ahmed Jabari — il comandante di Hamas ucciso nel novembre 2012 — è stata il drone lanciato ieri mattina dalle Brigate Ezzedin al-Qassam. L’aereo senza pilota degli islamici diretto verso il porto di Ashdod
è stato distrutto da un missile Patriot della difesa aerea israeliana, pochi chilometri dopo aver superato il confine nord della Striscia. I droni in possesso di Hamas sono degli “Ababil” di produzione iraniana. Sono lunghi circa tre metri, hanno un’apertura alare di tre metri e mezzo e per lanciarli in aria bisogna ricorrere ad un razzo. Per l’atterraggio dispongono di un paracadute. Gli ingegneri di Hamas si vantano di averne messo a punto tre modelli: con telecamera, con missili e carico di esplosivo
per una missione-kamikaze.
Il sistema di difesa israeliano è fitto ed efficiente, ma tutti gli esperti militari concordano del giudicare le strategie e le armi di attacco di Hamas e degli altri gruppi islamisti della Striscia molto più sofisticate di prima. Solo qualche anno fa i razzi delle milizie erano i Qassam, un’arma rudimentale con poco esplosivo assemblata dai carrozzieri che usavano le marmitte delle auto, in grado di percorrere 5-7 chilometri. Gran parte dei quali i primi tempi esplodevano al suolo. Adesso grazie alle forniture siriane, iraniane e libiche gli arsenali di Hamas e della jihad di-
spongono di razzi di produzione industriale come i Grad, gli M-75, M-302 che hanno bisogno di essere montati su rampe alte 8-10 metri con pistoni idraulici, batterie che hanno bisogno di almeno cinque artiglieri, che devono aver ricevuto una preparazione militare apposita. Il miliziano armato solo di Corano e Ak-47 ha lasciato il posto in questi anni a un combattente inquadrato, organizzato in reparti, dotato di radio militari criptate di ultima generazione.
È stato necessario un fiume di denaro per trasformare una milizia in un quasi-esercito sempre pronto all’impiego. Hamas e la
jihad hanno investito in armi ogni singolo dollaro ricevuto, grazie alle generose donazioni di charities sparse un po’ ovunque nel mondo. Soltanto negli Usa, l’Fbi ne ha chiuse otto negli ultimi due anni. Dietro la sigla di “Islamic Relief” strutturate organizzazioni con il sistema dell’ hawala — il trasferimento di denaro sulla parola — riescono a movimentare milioni di dollari al mese. Mentre Hamas è sulla black list di Europa e Usa, questo non è avvenuto nel mondo arabo e islamico. Dopo il caso della Freedom Flotilla che coinvolse la Turchia, il governo di Ankara ha versato aiuti per 300 milioni di
dollari l’hanno, il Qatar ha contribuito solo nel 2013 con oltre 500 milioni di dollari, l’Egitto islamista del presidente deposto Mohammed Morsi nel 2012 ha “donato” 200 milioni di dollari. E dopo l’iniziale gelo dell’Iran per il riavvicinamento all’Egitto della Fratellanza musulmana, con la caduta di Morsi i finanziamenti sono ripresi al ritmo di 50 milioni di dollari al mese, diretti però alla Jihad Islamica — il gruppo islamista che contende la leadership di Hamas nella Striscia.
Alla jihad erano destinati i 40
M-302 che erano a bordo della nave “Klos-C” intercettata in marzo nel Mar Rosso dai commandos israeliani che hanno sequestrato il carico. Il destino di quei missili era di essere sbarcato in Sudan, per essere trasferito nel Sinai attraverso i gruppi islamisti che operano nella Penisola egiziana e poi con i tunnel del contrabbando sotto il confine farli arrivare ai miliziani di Gaza.
Hamas ha gestito in prima persona i “tunnel militari”, quelli attraverso i quali sono passate le armi e i suoi miliziani in “trasferta”, mentre su tutti gli altri — in mano ai clan mafiosi palestinesi — esigeva una tassa per ogni merce in transito dal 7 al 10% del valore; un giro d’affari milionario che ha rappresentato il maggiore finanziamento per il gruppo fondamentalista. Quando erano in piena attività, fino a sei mesi fa, per i “tunnel della benzina” passavano 1,5 milioni di litri al giorno. Hamas esigeva una tassa di 1 shekel (20 cent di euro) ogni litro. Un’industria che per anni ha fruttato a Hamas 249 milioni di dollari al mese, finché al Cairo non è salito al potere Al Sisi, che ha visto nella deriva islamista del Sinai un pericolo per la stabilità dell’Egitto. Degli 800 tunnel in attività sotto quei 13 chilometri di frontiera ora ne restano meno di una decina. Ma non passano più missili e frigoriferi. In caso di disfatta serviranno per assicurare la fuga dei boss di Hamas.
© RIPRODUZIONE RISERVATA