Maurizio Bongioanni, Lettera43 14/7/2014, 14 luglio 2014
DOVE METTO I RIFIUTI NUCLEARI
Il nucleare dovrebbe essere un lontano ricordo per l’Italia. Invece a distanza di quasi 25 anni dallo spegnimento delle ultime centrali, nel nostro Paese resta il problema di dove deporre le scorie radioattive affinché non danneggino popolazione e ambiente.
Si tratta di trovare un luogo sicuro per 80 mila tonnellate di materiale: nonostante la legge 368 del 2003 abbia previsto la realizzazione, entro il dicembre 2008, di un deposito nazionale nel quale custodire in sicurezza i rifiuti radioattivi, manca ancora un sito permanente dove stoccarli.
Si continua, però, a progettare siti temporanei facendo quindi lievitare costi. Senza considerare i rischi legati alle infiltrazioni criminali, sempre più coinvolte nel business dello smaltimento dei rifiuti.
Sogin, società di Stato responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi (compresi quelli prodotti dalle attività industriali, di ricerca e di medicina nucleare), dal 1999 ha tra le sue attività di bonifica anche il ’riprocessamento’ delle scorie. Ed è questa società che spedisce le barre di combustibile irraggiato ormai esauste all’estero, per poi riprendersele indietro dopo il trattamento depurativo.
I rifiuti, infatti, sono destinati a tornare in Italia, depurati dal plutonio, a partire dal 2020. Andandosi a sommare al resto delle scorie. Francia e Inghilterra, principali destinazioni per il ritrattamento del materiale, hanno tuttavia intenzione di interrompere il programma almeno fino alla costruzione di un sito definitivo per lo stoccaggio.
Per far fronte al materiale di scarto delle quattro centrali di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Borgo Sabotino (Latina) e Sessa Aurunca (Caserta), nel nostro Paese, negli anni, sono stati costruiti diversi depositi nucleari e centri sperimentali. Ma mai un centro permanente.
In particolare a Saluggia, nel Vercellese, c’è il sito Avogadro, a pochi chilometri dalla centrale di Trino e di proprietà della Fiat Partecipazioni Spa: è qui che ancora oggi si trova il 96% delle scorie radioattive prodotte dalla stagione nucleare italiana (la parte restante si trova divisa tra capannoni e bunker sparsi tra Piemonte, Lombardia, Lazio e Basilicata).
Nonostante le richieste del legislatore, la realtà è molto complicata. Anche sui criteri per selezionare il luogo ideale dove far sorgere il deposito nazionale di rifiuti tossici.
Le linee da seguire sono contenute nella guida tecnica n. 29 dell’Ispra, ente responsabile della sicurezza nucleare in Italia dopo l’abrogazione dell’Agenzia per la sicurezza nucleare a seguito del referendum del 2011.
Nel documento, però, si fa riferimento solo alle prime due fasi di selezione: la prima che prende in considerazione i criteri di esclusione, la seconda quelli di approfondimento. La terza, ovvero l’individuazione finale del sito, spetta a Sogin.
Ma non è finita, perché la guida tecnica non indica le procedure con cui mettere in pratica i criteri espressi e tutta la parte di istruttoria tecnica e socio-ambientale è appena abbozzata.
«I criteri per localizzare il deposito nazionale arrivano con 10 anni di ritardo», spiega a Lettera43.it il presidente di Legambiente Vercellese Gianpiero Godio. «Nel frattempo sono stati realizzati i depositi temporanei con grande spreco di denaro e aumento dei rischi. Ci chiediamo chissà ancora quanto dovranno durare questi depositi ’temporanei’, collocati in situazioni a rischio come quella di Saluggia, se solo per arrivare ai ’criteri’, c’è voluto un decennio».
Saluggia, infatti, non è il luogo ideale per ospitare le scorie. Si tratta di un’area a ridosso del fiume Dora Baltea, tra i principali affluenti del Po, delimitata da canali irrigui che portano l’acqua alle risaie del vercellese e attraversata dalla falda acquifera che alimenta l’acquedotto del Monferrato.
In questo triangolo d’acqua, a partire dal 1958, sono sorti un centro di ricerca nucleare, un reattore sperimentale e l’impianto di riprocessamento Eurex in cui sono state sviluppate - in ambito civile e militare - tecniche per recuperare uranio e plutonio dagli elementi di combustibile irraggiati. Ed è qui, a due passi dal fiume, che arrivano le barre esaurite.
Durante l’alluvione del 2000 che causò l’inondazione del Canale Farini e della Dora Baltea, i siti nucleari furono allagati.
Il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia, all’epoca presidente dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) parlò di «catastrofe planetaria sfiorata».
In seguito a quest’evento venne emanato il decreto del ministero delle Attività produttive del 7 dicembre 2000, che fissava per il 31 dicembre 2005 il termine ultimo per la solidificazione dei rifiuti liquidi di Eurex. Peccato sia rimasto tutto come prima.
Nonostante la tragedia evitata, a Saluggia si sta finalizzando l’enorme deposito temporaneo chiamato D2.
I lavori sono iniziati il 18 luglio 2011 dopo un iter a dir poco travagliato: la costruzione fu subito bloccata su ordinanza comunale perché mancavano i documenti da allegare alla comunicazione di inizio lavori.
Ora il tetto del sito è stato completato e quindi i lavori civili sono considerati terminati.
Il problema, però, è che lì il deposito non poteva neppure essere costruito. La prima a dirlo fu la Regione che nel 2000 considerò nel piano regolatore «inedificabile» il terreno sul quale sta nascendo il D2, il cui termine reale è previsto per la fine del 2014.
Per ottenere l’autorizzazione a costruire, Sogin ricorse un’ordinanza dell’allora commissario per la sicurezza nazionale Carlo Jean, che al tempo era anche presidente della stessa società di Stato: nel 2005 dava tempo un anno per iniziare i lavori, che però furono rimandati.
Nel 2009, Sogin chiese una «proroga del termine di ultimazione lavori», anche se tutto era fermo. A concedere la proroga fu il responsabile del servizio tecnico urbanistico del Comune Antonello Ravetto.
Come ha fatto notare il sottosegretario del ministero del Lavoro Luigi Bobba, che nel 2010 ha presentato un’interrogazione al ministero dell’Economia e dell’Interno, a fare la concessione «è stata la stessa persona che come libero professionista dichiara di essere consulente della stessa Sogin proprio per quella pratica urbanistica».
Poi c’è il capitolo dei costi. Quando nell’ottobre 2008 Sogin pubblicò il bando - mancava ancora l’ok definitivo del ministero dello Sviluppo economico - si sapeva che l’impianto sarebbe costato circa 12 milioni di euro e l’appalto sarebbe dovuto durare 635 giorni.
STRUTTURA PIÙ GRANDE. A giugno 2010, però, il bando è stato dichiarato deserto. Così è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Europea un nuovo bando, pressoché identico al precedente salvo che per alcune variazioni: 15,7 milioni di euro in 560 giorni. In pratica 3,7 milioni in più per costruire un deposito temporaneo. Che non era più identico a quello pensato nel 2006: non avrebbe solo contenuto rifiuti a bassa intensità di radioattività (come previsto dal primo progetto), ma anche quelli a media intensità. E sarebbe stato più lungo di 10 metri rispetto a quello progettato.
Contattata in merito alla questione D2, Sogin, attraverso il suo ufficio stampa, fa sapere a Lettera43.it che l’individuazione di un sito nazionale è tra le priorità dell’azienda pubblica, tanto che i termini temporali per presentare la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) sono già stati fissati per gennaio 2015. Con l’obiettivo di arrivare alla localizzazione in accordo con le Regioni per gennaio 2016.
Tra le intenzioni di Sogin, è stato spiegato, c’è anche la realizzazione di un Parco tecnologico dedicato alla ricerca e alla formazione su tematiche connesse al decommissioning, alla gestione dei rifiuti radioattivi e alla radioprotezione, settore di mercato nel quale l’Italia punta a essere tra le nazioni più avanzate.
In attesa della svolta, però, c’è da fare i conti con il presente.
Recentemente sono anche emerse presunte tangenti che sarebbero state versate per aggiudicarsi appalti legati al Cemex, ovvero l’impianto di solidificazione di rifiuti radioattivi liquidi, quindi le scorie più pericolose.
Si tratta dei rifiuti che andrebbero stoccati in un altro deposito temporaneo, il cosiddetto D3 (attualmente in fase di progettazione) che dovrebbe sorgere sempre nell’area di Saluggia e che è stato ideato per avere un volume di 8.500 metri cubi.
Sulla vicenda il Movimento 5 stelle ha presentato un’interrogazione alla Camera. E nel documento firmato dal deputato Mirko Busto è scritto che la «Maltauro si aggiudicò l’affare grazie a un ribasso enorme, 98 milioni di euro invece dei 135 iniziali, e secondo i pubblici ministeri milanesi anche questo incarico sarebbe stato assegnato in seguito all’intervento di persone ora finite in carcere per la vicenda Expo».
«In presenza di una corruzione che parrebbe accertata», continua Godio, «è indispensabile verificare se anche le caratteristiche tecniche stabilite a suo tempo per impianti e depositi oggetto dell’appalto non siano state pilotate, e non rispondano quindi ai massimi requisiti di sicurezza, ragione per cui l’appalto dovrebbe essere annullato».
Per ora, però, le cose non cambiano. E Saluggia resta il centro di smaltimento dei rifiuti nucleari. Temporaneo. Almeno finché non sarà deciso quello permanente.
La posizione di Sogin nei confronti delle inchieste in corso è netta: «In maniera indipendente, all’oscuro delle indagini in corso, i nuovi vertici aziendali hanno avviato e portato a compimento una due diligence (un processo investigativo interno, nda)», è riportato nella nota cui l’ufficio stampa dell’azienda ha rimandato Lettera43.it per avere informazioni più precise. «Nell’ottica della totale trasparenza, il vertice Sogin garantisce piena collaborazione agli organi inquirenti». Ed è stato spiegato che sono state «consegnate sette lettere di contestazione ad altrettanti dipendenti; quattro dei quali, tutti dirigenti, sono stati contestualmente, in via cautelativa, sospesi dal servizio. Due di questi risultano essere interessati dalle indagini della procura di Milano».