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 2014  luglio 14 Lunedì calendario

IL FANTASMA SORRIDENTE DI MAURO ROSTAGNO

Il bel libro – deciderà il lettore se collocarlo nella categoria delle memorie, tra le cronache ottocentesche o le pièces teatrali – si apre con una visione. Chicca Roveri, la vedova di Mauro Rostagno, racconta al processo come vide la scena del delitto (è la prima volta; in un quarto di secolo, non era mai stata sentita). «Sono arrivata per prima, da sola. Ho capito che era già morto, mi sono seduta in braccio a lui, gli ho sfilato dal dito la fede che ci eravamo appena regalati. Ero sporca di sangue, gli ho parlato. Gli ho detto: adesso sei solo». Furono pochi minuti; sia Mauro che Chicca vestivano sempre di bianco, una regola della loro comunità.
Quindi, noi abbiamo — prima che arrivino i carabinieri, i lampeggianti, i fari della scientifica — il buio della notte e due corpi bianchi, come fantasmi, dentro una Fiat Duna dalle portiere aperte e i fari accesi in mezzo a una trazzera.
Era la sera del 26 settembre 1988, nelle campagne intorno a Trapani. Dopo un’ora le agenzie di stampa battevano la notizia urgente dell’uccisione di Mauro Rostagno, sociologo, icona del ‘68 e star di Lotta Continua, di cui si erano perse le tracce. A 47 anni, di ritorno dall’India, era andato a finire nella più lontana delle province italiane. Aveva fondato, con la moglie Chicca e il loro amico Francesco Cardella, la comunità “Saman” per il recupero dei tossicodipendenti, un’esperienza — unica a quei tempi — laica e libertaria. Ma Mauro era anche diventato il primo giornalista a Trapani a parlare di mafia, da una televisione locale, con coraggio e competenza. Scandiva nomi che non si dovevano pronunciare; mostrava facce che non si dovevano far vedere, incitava i cittadini a ribellarsi. Era bravo e pericoloso.
Chi aveva ucciso Mauro Rostagno? Era semplice, maledettamente semplice. Era stata la mafia. Ma la mafia a Trapani non esisteva, secondo i Carabinieri, il Procuratore, la Confindustria. E quindi, carabinieri e magistrati si adoperarono fin da subito a trovare “piste alternative”; la solita questione di corna, ben conosciuta in Sicilia; il passato di Rostagno (Lotta Continua era allora accusata dell’omicidio Calabresi, e lui stesso ricevette una mai spiegata comunicazione giudiziaria); la vendetta dei suoi ex compagni; vaghe piste di complotti internazionali, tutte tesi cui diedero fiato magistrati accondiscendenti (oh, quanti ce ne sono, in Sicilia!), loschi faccendieri e giornalisti senza arte, né parte.
Adriano Sofri ha scritto Reagì Mauro Rostagno sorridendo ( con la collaborazione di Rino Giacalone, editore Sellerio), all’indomani della sentenza che, dopo 26 anni (!), ha condannato esecutore materiale e mandante dell’omicidio. Oltre la denuncia, oltre l’indignazione per l’uso che il potere ha fatto della vittima, questo è un libro sull’amicizia, sul tempo, di cui nessuno si accontenterà di dire che è galantuomo, e una testimonianza dolente sulla non esistenza dell’unità d’Italia. Protagonista è l’interminabile Processo, lontano dal mondo come una fortezza Bastiani, a cui il mondo è indifferente, cominciato nel febbraio del 2011 e giunto a sentenza, dopo 70 udienze e una clamorosa perizia genetica, il 15 maggio scorso. La Corte d’Assise ha sentenziato che Rostagno venne ucciso da Vito Mazzara, campione di tiro a volo, killer preferito della mafia trapanese, su ordine del capomafia della città, Vincenzo Virga, imprenditore, uomo politico, re del cemento e consulente Fininvest. Ambedue sono detenuti e scontano già ergastoli per numerosi e precedenti delitti.
Adriano Sofri è stato molto amico di Rostagno («molto amico, ma non il suo migliore amico»). Quando Rostagno fu ucciso, era stato appena arrestato con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. La procura di Milano non gli diede il permesso di partecipare ai funerali, avendo i carabinieri di Trapani sussurrato ai giudici di Milano che proprio Sofri fosse il mandante del delitto. Venti anni dopo, quando Sofri era appena uscito dal carcere, cominciava finalmente il processo agli uccisori di Rostagno. Finalmente, dopo due decenni di depistaggi, era la mafia ad essere sul banco degli imputati. Così il vecchio amico diventò cronista di quelle udienze, lettore di decine di faldoni, alla ricerca di una verità, ma anche delle orme di un uomo in un luogo, esercizio letterario tanto affascinante, quanto pacificatore. L’uomo vestito di bianco, quello che diceva ai telespettatori: «Sono diventato più trapanese di voi!», gli appare come un fantasma e gli pare di vederlo camminare e sparire dietro un angolo. C’è una scritta slavata su un muro. Il parroco della Cattedrale, che lo seppellì tra una folla piangente, gli ricorda che, sì, davvero «Mauro era un po’ come Gesù Cristo», i due sostituti procuratori, Gaetano Paci e Francesco Del Bene, a conclusione delle loro requisitorie diranno dello «splendore della sua figura umana e intellettuale» e «io aspetto ancora una televisione che venga qui a parlare di mafia come ne parlava Mauro Rostagno». Sfilano i carabinieri, che non ricordano niente, che non sanno niente. Perché non faceste indagini sulla mafia? Sono diventati vecchi, e francamente se ne fregano di quel lontano delitto. Racconta il capo della polizia di Trapani, Giuseppe Linares (la polizia disse subito che era stata la mafia), a dimostrazione della potenza di Cosa Nostra, che loro appresero solo per caso che il capo in città era diventato Virga; pensavano fosse un altro, che invece era morto da anni. Passano centinaia di testimoni e ascoltano attenti i giudici popolari, e poi li si vede andare in giro in bicicletta, in una città dove tutti dicono al forestiero che «qui la mafia non esiste, ma appena fuori, sì». Sfilano decine di “pentiti”, nomi noti e manovali in un’agghiacciante rosario indifferente di uccisioni, attentati, contrattempi e coincidenze – l’estesa, troppo estesa, banalità del male in Italia. Fino al colpo di scena che deciderà il tutto. Una perizia sul Dna, su un pezzo di fucile rimasto sul luogo dell’attentato; una mossa audace ordinata dal presidente della Corte, Angelo Pellino, da cui emergeranno le impronte genetiche non solo del killer, ma anche di un suo zio con cui si accompagnava. È stata la scienza, non la confessione o il pentimento, a inchiodare Cosa Nostra. E a nulla è valso che la difesa della mafia sia stata presa nientemeno che dal generale Luciano Garofano, sì, quello di Cogne, quello dei Ris di Parma.
Non c’è lieto fine nel libro di Sofri, colpito dalla figura enigmatica del killer e dalla lettera che questi gli scrive: «So che lei è contrario all’ergastolo».
Ne sarebbe stato colpito anche Rostagno, che se vivessimo in un paese dei sogni, sarebbe diventato il sindaco di Trapani liberata dalla mafia, invece di un sorridente fantasma che si aggira ancora intorno al suo mercato del pesce.