Stefano Righi, CorriereEconomia 14/7/2014, 14 luglio 2014
LA DIETA STRETTA DELLE FONDAZIONI
La crisi ha spazzato antiche certezze. E ha messo a dieta le fondazioni di origine bancaria, che non sono più l’ago delle bilancia del credito: pesano meno in tutte le banche italiane, ma non in Intesa Sanpaolo.
La crisi ha cambiato il mondo. Quello delle banche sicuramente. E anche quello delle fondazioni di origine bancaria che ancora sette anni fa, ultimo anno prima che la grande crisi nata in Florida attraversasse l’Atlantico, erano l’attore principale e di assoluto riferimento per la maggior parte delle grandi banche italiane. Allora, punto di osservazione il 31 dicembre del 2007, si viveva davvero una realtà diversa. Ma da quel momento le fondazioni si sono messe a dieta.
Il cambiamento
Nella norma che le creava, la famosa legge Amato Ciampi, si faceva specifico riferimento alla progressiva uscita delle stesse fondazioni dal capitale delle banche cosiddette conferitarie. Una indicazione ampiamente disattesa dal sistema, in virtù di due diverse considerazioni: la prima è che in anni di ricavi crescenti non vi era in circolazione un rendimento alternativo più elevato; la seconda è che il posto in consiglio di amministrazione consentiva comunque un esercizio di indirizzo e controllo che da sempre ha un sapore irresistibile: quello del potere. Ora non è più così. Solo Intesa Sanpaolo ha, nella somma delle partecipazioni delle varie fondazioni al proprio capitale, un valore simile – anzi, di poco maggiore – rispetto al dicembre di sette anni fa. Allora Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo, Cr Padova e Rovigo, Ente Carifirenze e Fondazione Cr in Bologna controllavano il 23,34 per cento delle azioni della banca all’epoca guidata da Corrado Passera.
Oggi, i medesimi soggetti totalizzano il 24,239 del capitale. Ma anche a Ca’ de Sass è cambiato il mondo. Oggi, oltre alle fondazioni, c’è solo BlackRock tra gli azionisti rilevanti, che con il suo 5 per cento porta il totale del capitale di Intesa Sanpaolo riconducibile a investitori professionali di poco al di sotto del 30 per cento, mentre nel 2007 figuravano nel capitale la Carlo Tassara spa (5,90 per cento), il Crédit Agricole (5,57%), le Assicurazioni Generali (5,08%) e la Giovanni Agnelli & C. Sapaz (2,45%) che portavano il totale delle azioni in mani forti a raggiungere il 42,34 per cento del totale. Anche Intesa dunque, nonostante quell’apparente accelerazione in direzione opposta, è una banca molto più aperta al mercato di sette anni fa.
Casi evidenti
I casi più evidenti sono anche i più recenti. Dal dicembre scorso Siena ha vissuto giornate di estrema complessità per il futuro della banca più antica del mondo, da sempre controllata dalla città attraverso le istituzioni cittadine e recentemente per mano della Fondazione Monte dei Paschi. I disastri provocati dalle gestioni precedenti (sia in banca sia in fondazione, con riflessi anche penali) hanno portato alla necessità di una operazione sul capitale da 5 miliardi di euro che ha diluito la partecipazione della Fondazione ancora oggi presieduta da Antonella Mansi. Così, se al 31 dicembre 2007 la Fondazione controllava il 49 per cento della Banca Montepaschi, oggi si deve accontentare del 2,5 per cento, ma mai come in questo caso vale il detto: meglio poco che niente… Situazione simile a Genova, dove la scorsa settimana si è concluso un aumento da 800 milioni di euro che ha condotto la Fondazione a rivedere la propria partecipazione nel capitale della banca fino a scendere al di sotto del 20 per cento. Anche a casa Unicredit, la più grande banca italiana, il peso delle fondazioni è cambiato. All’epoca l’amministratore delegato Alessandro Profumo doveva fare i conti con l’intraprendenza di Paolo Biasi, numero uno di Cariverona e custode dell’anima localistica della banca talvolta in contrasto con le mire espansionistiche del top management . Oggi Biasi è sceso dal 4,54 al 3,49 per cento, ma soprattutto non è più il primo azionista della banca, bensì il terzo, dietro a BlackRock e ad Aabar, poco al di sopra della Banca centrale libica, della finanziaria di Del Vecchio e del fondo Capital research.
In calo
All’epoca le fondazioni in Unicredit si avvicinavano al 12 per cento del capitale, oggi si fermano all’8,21 per cento, con un’importante discesa anche da parte della Fondazione Cr Torino che negli anni ha pressoché dimezzato la propria partecipazione, privilegiando altri investimenti.
Tutto questo è stato fortemente indotto dal mercato. La crisi di liquidità ha richiesto maggiore capitalizzazione, ma anche i regulators si sono inseriti in questa opera di trasformazione. Criteri più severi nella valutazione della solidità degli istituti di credito sono stati adottati tanto a Roma quanto a Francoforte e anche la modifica della governance ha indotto cambiamenti. Quando Banca d’Italia sottolinea l’esigenza di avere figure presidenziali spogliate da deleghe operative, lascia intravvedere il gradimento verso una netta separazione tra management e proprietà. Una separazione non banale, ultima frontiera di un mondo in cambiamento. Da una parte gli azionisti, grandi e piccoli, fondazioni comprese, dall’altra il management che deve agire il più libero possibile dai condizionamenti dell’azionista.