Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 14/7/2014, 14 luglio 2014
MESSI L’ETERNO INCOMPIUTO DIVENTA ADULTO E NON SI LIBERA DELLO SPETTRO DI MARADONA
RIO DE JANEIRO — Ora diranno: è stanco, è stressato, non sta bene; ha di nuovo vomitato, stavolta in campo. In realtà, per un giorno, Messi sembrava un adulto. E forse ieri lo è davvero diventato. Il più grande calciatore d’inizio secolo resterà un eterno incompiuto, ma non è più Peter Pan, un eterno ragazzo. La delusione più grande della sua carriera coincide con la fine della sua giovinezza. Sogni che si realizzano, altri che sfumano. Un figlio, una finale Mondiale perduta. Un volto serio, ormai non più da bambino. Il volto da bambino l’aveva l’altro, Götze, il tedesco che ha segnato. Lui ha avuto un’occasione a tempo scaduto; ma la punizione l’ha tirata in curva.
Messi si è presentato negli spogliatoi del Maracanà dritto e duro, quasi solenne, quasi alto, con il borsello sotto il braccio, da solo, alla testa del gruppo. Anche in campo è entrato per primo, da capitano, masticando un chewing-gum, quasi con noncuranza. Dietro di lui, il suo migliore amico, Pablo Zabaleta. In fondo, l’uomo cui ha tolto la fascia, Mascherano. I compagni si abbracciavano, Messi è andato a stringere la mano all’arbitro italiano, Rizzoli. (Poi, quando il guardalinee Stefani ha segnalato il fuorigioco vanificando il gol di Higuain, è andato a parlargli fitto nell’orecchio, coprendosi la bocca con la mano per via del maledetto labiale).
Ieri mattina la tv brasiliana ha trasmesso il video delle sue prime partite. Sono immagini impressionanti. Il pallone gli arriva alle ginocchia. Leo fa sempre la stessa giocata: prende palla e cerca un varco verso la porta, dribblando chiunque incontri sulla sua strada, trascinandosi dietro avversari inferociti e compagni quasi altrettanto arrabbiati, in attesa di ricevere un passaggio che non verrà, perché lui è già in porta. Arrivava sempre al campo con la nonna, Celia, come la madre. Quando non aveva palla, la nonna gridava: «Passatela al Piqui, al piccoletto, che la mette dentro!». All’inizio considerata petulante, la nonna di Messi divenne una figura popolare, man mano che il nipote portava le varie formazioni giovanili del Newell’s, la sua squadra, alla vittoria. C’era un solo problema, anzi due: il piccolo non cresceva; e la nonna stava perdendo la memoria a causa dell’Alzheimer.
Ieri Messi ha giocato per gli altri. Si è messo al servizio della squadra. Le sue fughe non erano verso la porta ma lungo le fasce. Ha persino trovato un assist di testa per Higuain (se è per questo, ha persino sbagliato uno stop). Però si è trovato di fronte una squadra più forte. E dentro di sé ha cercato invano l’energia per portare l’Argentina al livello della Germania. Non ha giocato camminando, come contro l’Olanda, ma non ha trovato lo spunto decisivo o la continuità dei giorni migliori. Ha tirato verso la porta due sole volte, a fil di palo; poi un altro colpo di testa, troppo alto, nel finale. Da qui partirà una sarabanda di voci: le cure sostenute da giovane, le iniezioni che aveva imparato a farsi da solo, i 29 centimetri presi in 29 mesi, gli strascichi di una carriera precoce e segnata dalla chimica. Magari con una grande stagione nel Barcellona Messi spazzerà via tutto. Quest’anno però, per la prima volta nella sua carriera, non ha vinto nulla. Neppure la cosa più importante: la Coppa al Maracanà.
Quando alla fine degli Anni 90 l’Argentina andò in bancarotta, il sistema sanitario nazionale smise di pagare le iniezioni di ormone della crescita alla famiglia Messi. Anche la mutua della fabbrica dove lavorava il padre fece sapere di non poter più contribuire. Il Newell’s promise che avrebbe provveduto, ma non mantenne la parola. Versò 300 pesos, poi più nulla. Il padre decise di portarlo in Europa, dove era entrato in contatto con una società che investiva sui giovani, e avrebbe pagato le cure. Celia Messi morì il 4 maggio 1998, un mese prima che il nipote compisse undici anni. Tutto il quartiere di Rosario venne al funerale, in molti ricordano il piccolo calciatore in singhiozzi abbracciato alla bara. Ancora adesso Leo racconta: «Fu un colpo terribile». Ogni volta che segna, alza le braccia e indica il cielo in sua memoria. Ieri non ne ha avuto l’occasione.
Messi ha sempre sostenuto di esprimersi meglio in trasferta. Il tifo contrario lo carica. «El Clasico», lo scontro tra Real Madrid e Barcellona, preferisce giocarlo al Santiago Bernabeu che al Camp Nou. Ieri ha dato sino all’ultima goccia di energia pur di alzare la Coppa nel santuario del calcio brasiliano, profanato da almeno 20 mila argentini (10 mila avevano il biglietto, gli altri l’hanno comprato da tifosi della Seleçao troppo ottimisti). I brasiliani alla vigilia ostentavano indifferenza, i giornali hanno titolato sui giorni che mancano alle Olimpiadi, ma poi allo stadio hanno tifato clamorosamente Germania, accogliendo Messi con bordate di fischi. Non sapevano che lo stavano caricando.
Alla fine i brasiliani l’hanno applaudito, sia pure con moderazione. I cori erano per Pelé e contro Maradona, degradato da campione a cocainomane (cui gli argentini replicavano mostrando ai brasiliani 7 dita, tante quanti i gol della Germania in semifinale). Ma nella notte in cui diventa adulto Messi non riesce a liberarsi dello spettro dell’altro numero 10, che il Mondiale l’aveva vinto quasi da solo, con una squadra più debole di questa. L’uomo Messi avrà ancora un’occasione tra quattro anni. Ma già stasera, per l’ex ragazzo Leo, è troppo tardi.