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 2014  luglio 14 Lunedì calendario

IL TERZO POLMONE DEL CRISTIANESIMO: LA MODERNITÀ DELLA TRADIZIONE SIRIACA


Oggi, noi abbiamo un’idea inesatta e incompleta delle origini del Medioevo cristiano. Conosciamo il cristianesimo latino e occidentale; e quello bizantino. Ignoriamo quasi tutto di una terza tradizione, quella siriaca, specialmente siro-orientale, alla quale è dedicato il bellissimo libro di Sabino Chialà: La perla dai molti riflessi (Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, pagine 270, e 25). Di questa tradizione oggi non resta quasi niente: piccole comunità disperse e perseguitate nei paesi del Medio-Oriente, che di rado riescono a far giungere la voce fino a noi. Ma, un tempo, fino al tredicesimo secolo, esisteva una chiesa ricchissima, separata da Roma e da Bisanzio, che dalla Siria e dalla Mesopotamia, da Antiochia e da Selucia-Ctesifonte si estendeva fino in Persia orientale, nella penisola arabica, nello Yemen, in Asia centrale, in India, in Mongolia, e in Cina, dove fiorì dal VII al IX secolo.
Come i cristiani di Palestina, la comunità siriaca era di origine semita. Parlava una variante di aramaico, il siriaco; e in siriaco (e poi in persiano, sogdiano, cinese) tradusse l’Antico e il Nuovo Testamento. Nelle scuole e nei monasteri della Siria e della Mesopotamia, si studiavano i classici greci; e dal siriaco li tradussero gli arabi, che poi, attraverso la Spagna, li avrebbero reintrodotti nell’occidente latino. La chiesa siro-orientale seguiva il rito definito «assiro-caldeo». Aveva una croce a braccia eguali, senza la figura del Crocifisso (sebbene il Crocifisso avesse un ruolo essenziale nella loro teologia): braccia che terminavano, ognuna, in tre perle. I padri siro-orientali furono molti: Afraate il Persiano, Efrem, Giovanni il Solitario, Abramo di Natpar, Isacco di Ninive.
A partire dal secondo sinodo di Selucia-Ctesifonte (488), la chiesa siro-orientale fu diofisita: credeva nella duplice natura, divina e umana, del Cristo. Da qualche tempo essa aveva allentato i legami col mondo bizantino, anche per evitare le persecuzioni, spesso violente, dell’impero di Persia, sotto Shapur II (309-379) e Bahram IV (388-399). Non accettò le risoluzioni del concilio di Efeso del 431. Di lì nacque l’incomprensione e la rottura tra cristianesimo occidentale e orientale, che trovò il proprio culmine nel viaggio, a metà del XIII secolo, di Guglielmo di Rubruk in Mongolia (Viaggio in Mongolia , Fondazione Valla-Mondadori, a cura di Paolo Chiesa, 2011), quando il frate francescano non riconobbe nei sacerdoti alla corte del Khan mongolo i discendenti dell’antichissima tradizione siro-orientale. Per le comunità siriache e persiane, l’avvento dell’Islam non significò, almeno nei primi secoli, persecuzione e decadenza: i cristiani scrissero in arabo; e proprio a partire dal VII secolo, la chiesa di Mesopotamia conobbe una straordinaria fioritura ed espansione in Oriente.
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Prima che Mosé e Gesù preannunciassero il libro, ogni aspetto, volto e riflesso della Natura era una parola pronunciata dal Creatore. La Natura è parola, come quella che leggiamo nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Chi non sa cogliere Dio nella creazione — il sole, la luna, gli alberi, i fiori, le pietre — non saprà trarre giovamento dalla lettura della Genesi e dei Vangeli. Dio ama la creazione: la sua creazione, con una specie di follia, come scrive Isacco di Ninive. Anche se ci fu un tempo in cui la creazione non esisteva e lo spirito di Dio aleggiava come una colomba sulle acque, non ci fu mai un tempo in cui Dio non la conoscesse. Quando gli sembrò, la fece esistere: parlò, creò la luce, il sole, la luna, gli animali striscianti, e due volte l’uomo.
Accanto al libro della Creazione, vi è quello della Scrittura. In esso, Dio si rivolge agli esseri umani impiegando parole che essi conoscono: a costo di impoverire il proprio messaggio, rivelandolo in colori pallidi, privi dello splendore originario. Dio si abbassa, si fa prossimo all’uomo, gli parla impiegando la sua lingua, non la propria. Come nessuno di noi vede Dio, così nessuno conosce la sua lingua trascendente: la conosce solo il Figlio. Dio si nasconde: comunica all’uomo parole divine facendole apparire umane, che non dicono la verità di Dio, ma ne offrono una rappresentazione imperfetta.
Quale essa sia, la Scrittura è una perla, come le perle sulle braccia della croce: il suo aspetto è bellissimo, da qualunque lato la si guardi. Disse Efrem: «Posi la perla, fratelli miei, sul palmo della mia mano, / per poterla esaminare. / Mi misi ad osservarla da un lato: / aveva il medesimo aspetto da tutti i lati. / Nella sua limpidezza, io vidi il Limpido, / che non diventa opaco; / e nella sua purezza, / il mistero grande del corpo di Nostro Signore, / che è puro. / Nella sua indivisibilità, vidi la verità, / che è indivisibile». La perla è il Figlio: non vi è segno della Scrittura che non lo proclami: non vi è pagina dove non vi sia l’immagine del Cristo; non c’è carattere che non porti il nome del Signore. La perla è infinita. Anche se i giorni dell’uomo fossero numerosi come tutti i giorni del mondo, da Adamo sino alla fine dei tempi, e l’uomo meditasse le Scritture per questo tempo, non potrà mai cogliere tutte le profondità delle parole, perché nessuno può comprendere la sapienza di Dio, sebbene mascherata, riflessa, umanizzata.
Poiché la veste è umana, la Scrittura è piena di contraddizioni: frasi e massime sembrano annullarsi a vicenda. Le parole di Gesù si oppongono, come se fossero state dette a due diversi generi di persone. Per esempio, il Signore ha detto: «Non giudicate» (Mt. 7,1): ma anche: «Correggilo davanti a tutta la chiesa» (Mt. 18,17). «Se questi comandamenti fossero tutti e due per te — dice il Liber graduum —, quale di essi seguiresti? Sia che tu giudichi, sia che tu non giudichi, ti allontani dal Vangelo». Se vedete parole diverse tra di loro — dice Abramo di Natpar — non bisogna sconvolgersi: la verità è una: il Signore. Ma ci sono molte diverse forme, a causa della varietà dei tempi e degli individui. Se vediamo parole in contraddizione tra loro, non dobbiamo essere precipitosi, escludendo che si possano accordare. Quello che importa è la totalità della Scrittura, che dobbiamo avere sempre alla mente.
Così questi scritti, del V, VI e VII secolo, affermano cose che potrebbero ripetere i moderni interpreti della Scrittura: la molteplicità del testo, la varietà dell’interpretazione, la complementarietà dei metodi esegetici, secondo i contesti e i destinatari. L’esegesi siriaca è legata a tre tradizioni: l’esegesi giudaica, la scuola antiochena e quella alessandrina. Spesso la lettura allegorica, tipica della scuola alessandrina, viene rifiutata perché offende il significato letterale. Gli antiocheni preferiscono la lettura tipologica: la quale, pur offrendo un senso ulteriore rispetto a quello letterale, non annulla mai la realtà del testo. C’è la lettura fattuale e la letteratura tipologica: il mistero dell’Antico Testamento viene rivelato nel Nuovo. Questa lettura è anche spirituale. Qualche padre, invece, come Afraate il Persiano, invece di leggere l’Antico Testamento con l’occhio del Nuovo, legge il Nuovo Testamento con quello dell’Antico. Su un punto, tutti i padri siro-orientali sono d’accordo: l’esegesi biblica non potrà mai spiegare in modo definitivo la pagina biblica ed esaurirne il senso. Compito dell’esegeta non è di chiudere e delimitare la Scrittura fissando un significato, ma di rendere possibile un accesso sempre più ampio. Se la Scrittura è inesauribile, le spiegazioni sono sempre parziali: l’esegeta dice forse, è possibile, avanza ipotesi. «Le parole di Dio — dice Afraate — sono infinite e non sono mai sigillate per sempre. Se prendi acqua dal mare, non si noterà alcuna sua diminuzione. Se levi sabbia dalla spiaggia, la sua quantità non diminuisce». Dio ha impresso nelle parole molta bellezza, perché ciascuno possa indagare ciò che ama: ha nascosto dentro di esse ogni genere di tesori, perché ciascuno possa venire arricchito. «Gioisci perché ti sei saziato, dice Efrem, e non ti rattristare per ciò che ti supera! L’assetato gioisce perché ha bevuto, ma non si rattrista perché è incapace di esaurire la fonte». Ogni interprete è un tuffatore che si getta nell’acqua in cerca della perla: fruga a tentoni nelle profondità del mare, e porta la perla alla superfice. Non esaurisce le perle: non esaurisce la Scrittura; Dio ha bisogno di tuffatori e vuole che si moltiplichino.
Non basta pregare Dio: bisogna leggere, rileggere, bussando alle porte della Scrittura; perché la lettura è il nutrimento privilegiato della preghiera e senza di essa non si può comprendere Dio. Quindi, la lettura è più importante della preghiera. Ma, al tempo stesso, non dobbiamo accostarci alle parole misteriose della Scrittura senza prima aver pregato. La preghiera è la chiave per discernere la verità dalla Scrittura. I monaci siriaci ci raccomandano di leggere nella quiete, lontani da tutti, liberi dalle preoccupazioni del corpo e dal tumulto degli affari.
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Isacco di Ninive nacque non sappiamo quando sulle rive del Golfo Persico; e, tra il 661 e il 681, venne nominato vescovo di Ninive. Dopo cinque mesi di episcopato, abbandonò le vesti di vescovo per ritirarsi tra gli anacoreti. Secondo la leggenda, diventò cieco a causa dello sforzo prolungato della lettura. Morì molto vecchio. Ignoriamo se tutte le sue opere ci siano giunte: esse ebbero fortuna, tradotte in greco, arabo, georgiano, russo, etiopico, latino, italiano, francese, catalano, castigliano. Quando scrisse I fratelli Karamazov , Dostoevskij le conosceva. Affascinava la densità della frase, gli abbaglianti scorci epigrafici, la natura originale del pensiero, che dovette scandalizzare non pochi lettori. In italiano sono stati recentemente tradotti i seguenti libri: Discorsi ascetici I: L’ebbrezza della fede (a cura di M. Gallo e P. Bettiolo, Roma 1984): Discorsi spirituali (a cura di P. Bettiolo, Bose 1990): Terza collezione di discorsi ascetici (a cura di Sabino Chialà, Bose 2004). Consiglio sopratutto, come lettura introduttiva, l’antologia curata da Sabino Chialà: Un’umile speranza , Bose 1999.
Secondo Isacco di Ninive, ci fu un tempo, prima della creazione, in cui Dio non possedeva nome: in un secondo tempo, nel nostro indefinito presente abitato da uomini e da animali, possedeva il nome, sempre improprio, che gli attribuivano gli esseri umani; e infine verrà di nuovo un tempo in cui Dio non avrà nome, avvolto nella sua luce. Il Dio dei tempi intermedi, che noi chiamiamo Padre, Figlio, Spirito, ama il mondo con eccesso e follia; e abita gli uomini, sia pure non con la propria natura, siccome essa non può essere circoscritta né racchiusa. Dio ama tutti: dà i propri doni a tutti: peccatori e demoni, e a coloro che non sanno neppure che egli esista. Ma c’è una qualità che Dio non possiede: egli non è giusto, o è al di sopra della giustizia. Come possiamo chiamare Dio giusto, se leggendo i Vangeli ci imbattiamo nella parabola del salario degli operai, e in quella del Figliol prodigo?
Nei suoi scritti, Isacco di Ninive parla soprattutto degli uomini, che contempla nella loro miseria e nella loro gloria. Ci raccomanda di curare le cose piccole: chi le trascura anche nelle cose grandi sarà un mentitore e un ingannatore, come dirà Tolstoj in Guerra e pace . Non dobbiamo cercare le cose più difficili di noi: osarci nelle cose nascoste; avere troppo zelo, perché chi ha «zelo» è malato di una grande infermità. «Un uomo zelante non raggiunge mai la pace dei pensieri». «Per ogni pratica c’è una misura, e per ogni pratica è noto un tempo. Chiunque cominci prima del tempo qualcosa che è superiore alla sua misura, ne ha danno e nessuna utilità». Il cristiano ha sempre il dono miracoloso del kairos .
Siccome viviamo nel mondo, dobbiamo conoscere il peccato. Isacco dissemina una serie di aforismi. «Chi è puro di persona, vede tutti gli uomini e nessuno gli sembra impuro e contaminato». «Ama i peccatori e rigetta le loro opere». «Cristo è morto per gli empi, non per i buoni». «Non odiare il peccatore. Piangi su di lui. Perché lo odi? Semmai odia i suoi peccati». Vi fu un tempo in cui il peccato non esisteva, nel Paradiso Terrestre, e vi sarà un tempo, nel regno dei cieli, in cui non ci sarà più.
L’epoca in cui viviamo è piena di tentazioni. Noi le odiamo, perché supponiamo che vengano da Satana: in realtà, discendono da Dio. Senza conoscere le tentazioni, noi non possiamo conoscere la verità. Solo se entriamo nella tentazione, acquistiamo la sapienza dello Spirito. Chi non è capace di ricevere una tentazione grande, non sarà capace nemmeno di ricevere un grande dono. Se Dio ritira da noi la grandezza della tentazione, ci ridurrà anche la grandezza del dono.
Come i monaci, dobbiamo vivere nella solitudine: anche a casa, nel mondo, possiamo essere solitari e abitare una cella interiore. Allora, in poco tempo, diventiamo partecipi alle mente divina, e senza ostacoli, ci avviciniamo alla limpidezza dei pensieri. Nella nostra cella mentale, preghiamo: sgorga dal cuore una sorgente di dolcezza; le membra si commuovono, gli occhi si chiudono, e i pensieri si trasformano. Come dice il Vangelo, non dobbiamo chiedere a Dio le cose di cui abbiamo bisogno: il Salvatore, che conosce ogni cosa per la compassione che lo abita, si dà pensiero di tutto ciò che ci riguarda. La vera preghiera è un’altra: sentiamo ciò che è Dio, avvertendo la sovrabbondante pienezza del suo amore.
La forma più alta della preghiera è quella spirituale, quando la natura esce da ciò che le è proprio. Allora non prega né l’anima, né la mente, né i sensi: mentre tutto è nella quiete, (lo Spirito divino che discese su Gesù nel battesimo) compie la propria orazione. Chi prega si acquieta davanti alla magnificenza del Signore che si rivela allo Spirito, ed è ridotto al silenzio. Questo è il segno che il Signore si è compiaciuto di lui.
La preghiera sale. A un certo punto, si arresta in un luogo, che interrompe il mormorio delle labbra: questo luogo Isacco di Ninive lo chiama lo stupore o la non-preghiera. Il pensiero non ha più preghiera, né mente, né lacrime, né potere, né libertà, né suppliche, né desideri, e non brama nulla di quanto viene sperato in questo mondo e nel mondo futuro. L’orazione è superata, eppure continua sempre. Come dice san Paolo, nella Lettera ai Romani, «lo Spirito, quando abita nell’uomo, non smette di pregare. Lo Spirito prega continuamente. Allora, né quando dorme né quando è sveglio, la preghiera cessa nella sua anima; ma, sia che mangi, sia che beva, sia che faccia qualcosa, e persino se è immerso nel sonno, le esalazioni della preghiera si levano nel suo cuore senza fatica». Questo tipo di orazione ebbe un’immensa fortuna: nella mistica bizantina, nella preghiera russa; e in un bellissimo libro russo, che anni fa ebbe molto successo in Italia: La via del pellegrino (Adelphi).
Lassù, in alto, vicino all’altro mondo, ci sono le lacrime. Come acque di torrente, esse scorrono dal nostro occhio, non costrette, mescolandosi alle fatiche, alla lettura, alla preghiera, alla meditazione, al cibo, e alle bevande: in tutto ciò che facciamo, esistono le lacrime. Esse sono l’unico segno del corpo che manifesta la percezione della verità. Quando giungiamo nella ragione delle lacrime, il pensiero esce dalla prigione di questo mondo e posa il piede nell’orbita del mondo nuovo. Esso respira ormai l’aria meravigliosa di quel luogo, e comincia a versare lacrime di stupore e di ammirazione. Quando s’innalza ancora, il corpo resta senza lacrime, senza sensazioni, e trova la verità nel silenzio.
La lettura, la preghiera, la non preghiera, le lacrime, il luogo senza lacrime sono tutte tappe di quel processo che conduce alla divinizzazione dell’uomo. Isacco di Ninive la accetta: la mistica bizantina la accetta; ma l’occidente cattolico e latino l’ha, quasi semp re, profondamente rifiutata.