Maurizio Molinari, La Stampa 14/7/2014, 14 luglio 2014
QUEL FIUME DI CARRETTI
Strade vuote, negozi sbarrati e i pochi sguardi umani che filtrano dietro porte semichiuse. Beit Lahiya si presenta come un luogo spettrale. Sabato mattina ospitava circa 80 mila residenti, ora ne sono rimasti qualche centinaio. Per scoprire dove sono finiti bisogna percorrere l’arteria che porta a Jabalya, il maggiore campo profughi a Nord di Gaza. Più ci si avvicina a destinazione, più aumenta il numero di carretti trainati da asini sui quali sono appollaiate famiglie intere. I più abbienti hanno affittato un taxi e fra i ragazzi c’è chi viaggia in moto ma il disordinato fiume umano è soprattutto composto da famiglie che camminano a piedi, in gruppi disordinati.
La destinazione sono le scuole dell’Unrwa - l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi - che a Jabalya hanno aperto i cancelli per accogliere un fiume umano che non sa dove andare. Davanti alla «Boy School» si è creato un parcheggio di carretti e asini che invade la strada. È l’immagine dell’esodo di Beit Lahiya, composto da migliaia di microstorie come quella di Nabil Maarouf, 56 anni: «Ho una moglie, 4 figli e 10 figlie, sabato notte ho appreso che gli israeliani avrebbero bombardato il nostro quartiere e non ci ho pensato due volte, siamo saliti sul carretto e siamo arrivati qui». A Maarouf la notizia della minaccia israeliana l’ha data il notiziario in arabo di «Kol Israel», la radio di Gerusalemme, mentre Abdel Karim, 35 anni e 4 figli, dice di averlo saputo «guardando Russia Today», ovvero l’emittente russa in lingua araba molto seguita dai palestinesi della Striscia. «Poco dopo aver sentito cosa diceva la tv russa, era in mezzo alla notte, abbiamo sentito bombardamenti forti sul centro di Gaza e siamo andati subito via» aggiunge Karim.
L’altro mezzo con cui Israele ha comunicato la richiesta di «lasciare le vostre case entro le 12 di domenica per evitare attacchi duri» sono stati migliaia di volantini in arabo, gettati dal cielo. Hamas ha tentato di fermare la fuga stampando a sua volta dei comunicati scritti: «Non lasciate la vostre case, non fate il gioco del nemico». Ma il timore dei bombardamenti ha prevalso e Beit Lahiya si è trasformata in un deserto urbano, desolato al punto da evocare il «Day After» di una bomba ai neutroni perché gli edifici sono intatti ma gli esseri umani non ci sono più. Se si escludono alcuni uomini intenti a smontare i tombini per trasformare l’ambiente sotterraneo in rifugio o alcune auto in cerca dei parenti rimasti indietro. A ricevere i profughi nelle scuole sono insegnanti come Ibrahim Belbesi, 62 anni: «Di professione insegno inglese ma adesso aiuto questi disperati, hanno bisogno di tutto».
È l’esercito israeliano ad aver voluto svuotare Beit Lahiya perché è dal Nord della Striscia che, sin dall’inizio dall’operazione «Protective Edge», sono partiti il 36 per cento dei razzi lanciati da Hamas e il 30 per cento di quelli a lungo raggio destinati a Tel Aviv, Gerusalemme e l’aeroporto Ben Gurion. «Hamas usa Beit Lahiya per attaccare le nostre città - spiega Arye Shalicar, portavoce dell’esercito - e adopera la popolazione civile come un gigantesco scudo umano, l’evacuazione degli abitanti ci consente un confronto diretto con Hamas e forse farà cessare i razzi, perché la protezione umana non ci sarà più». Ciò significa che droni, satelliti e informatori israeliani hanno identificato in Beit Lahya una pericolosa piattaforma di lancio di razzi. Da qui i bombardamenti massicci, iniziati dalle 14 di ieri, con intensità crescente, facendo tremare la terra per chilometri.
A conferma della volontà di Tzahal - l’esercito israeliano - di imporsi a Beit Lahya c’è il blitz dei commandos della Marina - Shayetet 13 - che all’alba di domenica hanno attaccato dal mare la base di Hamas sulla spiaggia di Al-Sudaniya. Si tratta di un angolo di arenile popolato di casematte e con una base militare della Marina palestinese. È da qui che sono partiti molti dei razzi a lungo raggio: M-75 e J-80. «Ed è qui che le nostre truppe speciali hanno colpito, trattandosi di un obiettivo che dal cielo non poteva essere raggiunto» spiega Shalicar. Nello scontro a fuoco sono morti - secondo Al Jazeera - quattro miliziani di Hamas mentre tre commandos sono rimasti feriti.
A molti profughi di Beit Lahya la sovrapposizione fra il blitz dei «pipistrelli» - soprannome dei Navy Seals israeliani - e l’evacuazione obbligata fa ricordare «quanto avvenuto alla fine 2008» in occasione dell’operazione «Piombo Fuso». «Gli israeliani allora invasero Gaza passando da Beit Lahiya - ricorda Ahmed Kafarna, 46 anni - trasformarono la nostra città in una base per i loro carri armati, da dove bombardavano il centro di Gaza». L’obiettivo sarebbe dunque creare uno spazio per agevolare l’intervento di terra, creando il nuovo confine fra Israele e Hamas lungo la «Strada 17» ovvero il grande viale che prende il nome dalla caserma - oramai demolita - di Forza 17, le truppe scelte dell’Olp di Yasser Arafat. «Torneranno su questo viale, lo trasformeranno in campo militare e poi se ne andranno, lasciando solo macerie» prevede Kafarna. Ironia della sorte vuole che buona parte dei volantini sganciati su Beit Lahya sono stati portati dal vento alla vicina Beit Hanun, dove i residenti li hanno stracciati in mezzo alla strada, gridando «noi restiamo».