Ugo De Siervo, La Stampa 14/7/2014, 14 luglio 2014
I NUOVI POTERI DELLO STATO
Arriva in Aula il testo - deliberato dalla prima Commissione del Senato, sotto la spinta del governo - di esame del ddl di revisione costituzionale relativo alla trasformazione del Senato e del nostro sistema regionale, nonché della eliminazione del Cnel e delle Province.
Val la pena di dedicare un po’ di attenzione ai testi che sono stati varati, dal momento che non mancano certo le novità, anche importanti e relative perfino a materie neppure trattate nell’originario disegno di legge governativo. E ciò appare tanto più necessario, dal momento che finora purtroppo hanno molto prevalso nel dibattito e nella stessa cronaca giornalistica le valutazioni molto politiche utilizzate dai vari gruppi o sottogruppi parlamentari, mentre sono quasi scomparse le considerazioni su ciò che muterebbe nelle istituzioni repubblicane con una Costituzione così modificata.
Non solo occorre prendere atto di ciò che ora va alle deliberazioni del plenum del Senato, ma occorre cercare di comprendere come innovazioni del genere si inserirebbero, più o meno organicamente, nella nostra Costituzione. Le novità sono peraltro molte e quindi per ora vediamo di concentrare l’attenzione sulle sole principali innovazioni che si produrrebbero nei poteri centrali dello Stato.
Cominciamo dalla composizione del Senato, radicalmente diversa da quella proposta nel disegno di legge governativo, a riprova della modestia della originaria progettazione: scompaiono (giustamente) la eguale rappresentanza di ciascuna Regione, la paritaria nomina di esponenti regionali e comunali, l’inserimento di diritto dei Presidenti delle Regioni e dei Sindaci dei capoluoghi regionali, la proposta di affidare al Presidente della Repubblica la nomina di ben 21 Senatori, mentre ora, invece, più semplicemente si affida ai Consigli regionali la nomina al loro interno di 74 Senatori, secondo le consistenze demografiche delle diverse aree regionali, e di 21 Sindaci, mentre il Presidente della Repubblica si limiterebbe a nominare Senatori per sette anni gli attuali cinque Senatori a vita.
Comincia a mutare pure l’originaria accentuata dequalificazione dell’Assemblea senatoriale: si parla ancora di Senato della Repubblica (e non più «delle autonomie»); riappare il Presidente del Senato, prima letteralmente cancellato; si affida al Senato almeno parte dei necessari poteri conoscitivi e di controllo; si estendono, seppure assai limitatamente, le leggi che devono essere approvate dalle due Camere (oltre a quelle già originariamente previste nel disegno di legge, fra cui ovviamente emergono le leggi costituzionali). Ciò però non toglie che in generale restino debolissimi i poteri del Senato su tutte le altre leggi, rispetto alle quali il dissenso del Senato può essere messo nel nulla dalla volontà della maggioranza della Camera e solo in casi eccezionali dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti. Questo anche quando il Senato si esprima a larghissima maggioranza o su leggi del tutto rilevanti per le autonomie territoriali.
Fra le cose relativamente minori, che non sembrano mutate, vi è pure la paradossale gratuità della funzione senatoriale, malgrado l’evidente grande lavoro richiesto: né penso che possa ipotizzarsi che ciascun Senatore si porti dietro il livello retributivo della mansione precedentemente svolta, con tutte le relative diversità; ciò senza pensare ai poveri Senatori di nomina presidenziale!
Mentre però l’attenzione era assorbita dai meccanismi di selezione dei Senatori, il ddl ed il lavoro della Commissione senatoriale hanno introdotto innovazioni notevoli in altre parti del nostro ordinamento costituzionale: non penso certo all’inutile moltiplicazione del numero delle votazioni a maggioranza qualificata per l’elezione del Presidente della Repubblica, ma mi riferisco alla configurazione di una forte corsia preferenziale per le proposte legislative del Governo, ma anche all’opportuna introduzione di vari limiti alla decretazione d’urgenza; alla sostanziale agevolazione dei referendum popolari di abrogazione delle leggi, malgrado il parziale innalzamento delle firme necessarie (ora 800.000), dal momento che il loro esito sarebbe valido se partecipa al voto un numero di elettori superiore alla metà dei votanti nelle elezioni politiche precedenti (notoriamente siamo in una stagione di forti astensionismi); la Corte costituzionale sarebbe chiamata a giudicare della ammissibilità dei referendum richiesti a metà della procedura di raccolta delle firme e soprattutto potrebbe essere chiamata a giudicare della costituzionalità di una legge elettorale per Camera o Senato in via preventiva, su istanza di una minoranza parlamentare. Proposte tutte di grande importanza, ma che meriterebbero davvero un’attenzione assai maggiore: basti pensare alle difficili sentenze sulle leggi elettorali ed ai loro successivi effetti.
Il problema di fondo è che sembra purtroppo essere mancata una forte ed organica progettazione costituzionale, che si facesse carico di tutti i problemi immediatamente rilevanti ed urgenti (e solo di questi). C’è da sperare che non sia una frase di convenienza quella del Ministro Boschi, secondo la quale sarebbero possibili ancora ritocchi: a volte i restauratori riescono a fare cose davvero egregie.