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 2014  luglio 14 Lunedì calendario

L’UOMO CHE PARLAVA AI BAMBINI

Il bambino è il padre dell’uomo”. Chissà se Giovanni Bollea aveva letto il verso del poeta inglese William Wordsworth. Eppure sembra scritto da lui, dal padre italiano della neuropsichiatria infantile. Bollea che ci ha insegnato a non vedere i bambini come versione incompleta dell’adulto. E che da loro, dai travagli e dalle felicità che contribuiranno a formarli, prenderà forma l’uomo.
Ci sono momenti che racchiudono la vita di una persona. Per Giovanni Bollea erano gli istanti in cui incontrava per la prima volta i piccoli pazienti. Chi c’era, chi vi ha assistito stenta a trovare le parole per descriverli. La stanza del medico scompare, i genitori finiscono sullo sfondo. Restano soltanto lui, con il suo camice bianco, e il bambino: “Bollea rimase zitto, allungò le sue mani grandi sulla scrivania finché non toccarono quelle di mio figlio. Ma senza prendergliele, senza afferrarlo. Poi lo guardò fisso negli occhi, per uno, cinque, dieci minuti, a me parve un tempo interminabile. C’era qualcosa di accogliente, non di aggressivo in quello sguardo. Finché mio figlio a sua volta lo guardò fisso. Come non aveva mai guardato nessuno. Come se quei due, il medico e il bambino, riuscissero a vedersi oltre le pupille, nel fondo della persona. Allora Attilio cominciò a parlare, quasi fosse la prima volta”. Così la mamma di uno dei bambini di Bollea racconta quell’istante. Il grande medico lo descrisse così: “Quando mi portano un bambino, anche dopo che i genitori mi hanno spiegato ciò che ha o ciò che non ha, io non so mai qual è la prima domanda che gli farò. Lo guardo, lo saluto, magari gli faccio fare un momento di ginnastica e poi mi viene in mente la prima domanda; scendo così al suo livello di comunicazione, con umiltà, cercando di comprendere chi ho di fronte; mi ‘destrutturalizzo’, mentre in me c’è uno sdoppiamento: un io che osserva e un io che conversa. È proprio in questa maniera che riesco ad entrare nell’altro ed a capire quel che devo fare”.

All’alba a lavorare poi a scuola
In quegli istanti il bambino lasciava emergere se stesso. Ma anche Bollea abbandonava ogni schermo. Il suo sguardo rivelava l’esperienza, la scienza, ma soprattutto una lunga vita. Tutt’altro che semplice. Oggi noi lo ricordiamo con espressioni che nella loro solennità finiscono per essere riduttive: “il padre italiano della neuropsichiatria”. Ma Bollea è stato prima di tutto un grande uomo. Un grande italiano.
Era tutto scritto in quei suoi sguardi, come nella foto che lo ritrae mentre un bambino gli tira un’enorme palla, simbolo del gioco, ma anche del peso che i piccoli spesso portano con sé. E che Bollea cercava di afferrare.
Davvero il bambino è padre dell’uomo, perché, senza quei primi anni nella Torino di inizio secolo, Bollea (che era nato il 5 dicembre 1913 e oggi avrebbe cento anni) non sarebbe diventato l’uomo che ha aiutato tante persone a liberarsi dalla sofferenza mentale. Perché fu l’infanzia vissuta con dignità, ma sul limite della miseria, a insegnargli il rigore che fu suo tratto fondamentale. Da quei giorni in cui si alzava all’alba per aiutare i genitori nel loro panificio, prima di andare a scuola. Dove era sempre il primo.
Chissà, forse tendendo le mani ai suoi pazienti, guardandoli negli occhi, il medico ricordava se stesso, la madre Rosa, il padre Gelsomino “un idealista e ribelle per natura – così lo descrisse – insofferente verso ogni forma di ingiustizia sociale”. Idealista come Giovanni.
Bollea li perse presto, Rosa e Gelsomino, quei genitori dai nomi di fiore. E le ingiustizie decise di combatterle soprattutto con la sua scienza, facendo il medico, nella Torino travagliata, ma straordinaria degli anni Trenta di Carlo Levi, Primo Levi, Luigi Einaudi. Così come nella vita di ogni giorno. Era di sinistra – dal Pci al Pd, negli ultimi anni – ma lo si vedeva soprattutto dalle azioni. Storie dimenticate in cui, per un gioco del destino, Bollea si ritrovò probabilmente a portare un premio Nobel all’Italia. Non per sé, però. Per quel compagno di studi che si chiamava Renato Dulbecco (morto due anni fa, anche lui quasi centenario): già, capitò che i due si trovarono di fronte per conquistare un posto all’università. Lo ottenne Dulbecco, ma Renato, figlio di famiglia benestante, ritenendo forse di meritarlo meno dell’amico, glielo lasciò. E Giovanni non dimenticò mai. Fino a quel giorno durante la ritirata di Russia. Un inferno difficile perfino da immaginare: Bollea, medico delle truppe, procede a piedi, con una gamba rotta, con il cuore che gli sta cedendo. Ma resiste. Finché su un carro che trasporta cadaveri congelati riconosce il volto di Dulbecco. È ancora vivo. In quel momento passa il camion per gli ufficiali. La salvezza. Bollea potrebbe salire, ma lascia il posto all’amico ferito. E continua a piedi.
Questo era l’idealismo di Bollea: che ignora le leggi razziali e si innamora di Renata Jesi, la ragazza ebrea romana conosciuta a un ballo. La sposa nel 1938, quando il fascismo ha già il suo volto più terribile. Giovanni affronta le prove di quegli anni: è sul fronte in Slovenia e in Russia, ma sempre come medico. Intanto cerca in ogni modo di proteggere il figlio Ernesto, la piccola Maria Rosa nata in clandestinità. Riesce a salvarli tutti, anche i suoceri. Per lui, anti-fascista, vicino al comunismo e ai Partigiani, è questa la Resistenza: curare i feriti al fronte, tornare a Roma per salvare la famiglia.
Terrore, sofferenza. Anche da qui nasce la determinazione di curare finalmente i bambini affetti da disturbi psichici, prima confinati nei reparti di pediatria o peggio negli istituti. Un desiderio coltivato da quando, a sette anni, aveva visitato il Cottolengo di Torino: “Questi bambini disgraziati saranno i primi a entrare in paradiso”, gli aveva detto la suora. E lui, d’istinto: “Perché invece non provate a curarli?”.
Ecco allora nel Dopoguerra gli studi a Losanna e poi, al ritorno in Italia, il lavoro incessante per realizzare a Roma il Centro Medico Psicopedagogico e la Scuola Italiana di Neuropsichiatria Infantile.
La ricerca, la cura sul campo, la vita, questo era Bollea. Parlano le oltre duecento pubblicazioni. Ma soprattutto le testimonianze di uomini e donne come la madre di Attilio. E i racconti della figlia Maria Rosa: “Papà stava sempre con i pazienti, ma non ha mai saltato un pranzo e una cena con noi. Voleva che quei momenti fossero salvi, che ognuno parlasse della sua giornata, di quello che succedeva nel mondo. Poi di nuovo si chiudeva nello studio per leggere o fare telefonate interminabili con i colleghi”. A sentir raccontare la vita di Giovanni Bollea non si trova un confine tra esistenza quotidiana e teoria. Le parole che ricorrono, in chi lo ha conosciuto, sono “coerenza”, “rigore” e “morale”. Ma non “severità”. Anzi. Ecco la poesia che gli ha dedicato il figlio Daniele: “Bambino che ancora non sei nato/ che Dio ti mandi un padre come il mio,/ nato col sogno di far felice il mondo/ Quando mi prendeva per mano/ c’eravamo solo io e lui/ Liberi dalla paura che risuona/ tra ciò che è stato e ciò che sarà”.

Quell’uomo che ti dava sicurezza
Un uomo che dava sicurezza. Racconta la seconda moglie Marika nel libro di Giovanna Lo Sapio (Armando Editore): “Madri e padri uscivano dal suo Istituto entusiasti e gratificati . Per questo, Giovanni dava l’impressione di forza e di potenza straordinarie, un misto di perfezione e di emozione profonda. Aveva un peso, una presenza. Il ritmo dei suoi movimenti, a volte, sembrava partire da un bilanciamento orizzontale e verticale, alternativi al suo pensiero”.
No, non un uomo distaccato. Il contrario: “Dietro un’apparente calma nascondeva le sue tensioni”, ma non le faceva gravare sugli altri, le risolveva dentro di sé, come dice Marika. Un professore che ti metteva soggezione, ma poi trovavi con i piccoli pazienti sdraiato sotto un tavolo a giocare. Un lavoro continuo, sugli altri e su se stesso: “Era affascinato – racconta Marika – dai caratteri in formazione; anche e perché considerava se stesso in continuo avanzamento e lievitazione dei propri ideali. Cercava la semplicità attraverso la maturazione e la purificazione dei suoi pensieri; calma che gli si leggeva sulla fronte dove le rughe apparivano, scomparivano o si attenuavano, ogni giorno diverse”.
Il suo difetto? “Non essersi voluto arricchire”, finge di criticarlo il figlio Ernesto. E Maria Rosa: “Ha sempre trascurato la libera professione, la più redditizia. Curava tutti, benestanti e povera gente che lo pagava con un paio d’uova”. A tutti i piccoli pazienti dedicava lo stesso tempo, uguali attenzioni.
Certo, poi c’erano state le amicizie importanti con Carlo Levi, Ennio Flaiano, Renato Guttuso. C’era la stima di grandi della politica come Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Ma Bollea era soprattutto altro: “L’uomo grande in tutte le cose che si faceva piccolissimo nelle cose che desiderava per sé, per vivere una vita semplice che a lui piaceva”. L’uomo – come racconta Marco Carniti, figlio di Marika, regista di un’opera intensa sulla vita di Bollea in scena il 15 dicembre all’Argentina di Roma – “che aveva un naturale senso dell’eleganza per le cose non materiali, ma che dovevi fermare ogni volta che usciva con cravatte e maglioni tutti sbagliati”.
La costruzione di se stessi, tra malattie, cadute e scompensi, ecco la grande fatica della vita che Bollea studiava. E rispettava: “Con lui – è ancora Marika a dircelo – ho capito che se non si costruisce l’Io, come valore fondamentale e imprescindibile, non ci può essere né libertà, né democrazia e che la scienza di introspezione che aveva scelto gli imponeva quella carica di rabbiosa vitalità che travolgeva le sue giornate”.
Ecco i capolavori di Bollea, più dei libri, delle ricerche: “L’equilibrio tra affetti intimi e dovere sociale”. Il frutto non è la perfezione, ma una versione molto più umana: la coerenza. Un messaggio che ci ha lasciato e va ben oltre la disciplina dei suoi studi. E forse ancora più l’essere arrivato alla fine, dopo aver attraversato tanti dolori, sempre “con il sogno di far felice il mondo”. Lui che non credeva in un’altra vita, ma continuava a sperare in questa.