Alessandro Ferrucci, il Fatto Quotidiano 14/7/2014, 14 luglio 2014
RICCARDO PIATTI, TRENT’ANNI DA ALLENATORE
La lista, non in ordine alfabetico né di importanza, comprende: gli italiani Renzo Furlan, Cristiano Caratti, Cristian Brandi e Federico Mordegan; quindi il numero uno al mondo Novak Djokovic, Ivan Ljubicic, Richard Gasquet e ora il canadese Milos Raonic, numero sei del ranking. Tutti loro, tutti, sono o sono stati allenati da Riccardo Piatti, classe 1958, coach di tennis che ha raggiunto i risultati più importanti a livello nazionale ed internazionale. Ora è all’isola d’Elba per i campi estivi, in mezzo a ragazzi di ogni età, tra certezze e speranze, voglia di giocare e desiderio di confrontarsi. Con qualche genitore di troppo: “Sì, a volte solo loro a caricare i più giovani di troppe responsabilità, quando invece i tempi sono altri”.
Partiamo da una verità o leggenda: il tennis non si deve praticare da troppo giovani perché altera il corretto sviluppo del corpo.
«Questa è una leggenda. Basta non spingere troppo, non esagerare, inoltre esistono delle palline più leggere e morbide che offrono un impatto migliore sulla racchetta».
Prima regola da imparare...
«In questo caso mi ispiro a Julio Velasco (storico allenatore della nazionale azzurra di volley, ndr), che afferma: ‘Quando i bambini giocano al Lego o alla Playstation, mica ridono, ma sono attenti e concentrati. Così si divertono’».
Quindi?
«Semplice, noi allenatori dobbiamo trasmettere la giusta tecnica, insegnare le basi, come si colpisce correttamente la palla, quali sono i movimenti più appropriati. Il bambino che lo capisce o lo applica trova la soddisfazione nel vedere realizzati i suoi intenti».
In quanto alla crescita fisica difforme?
«L’importante è insegnare come muoversi sul campo, poi l’allenatore deve capire se il soggetto è più adatto a colpire con una mano o due. Ribadisco, l’aspetto chiave è trasmettere la giusta tecnica».
Resta la questione-genitori e la loro invadenza, figlia dell’aspettativa.
«Sono presenti, eccome. E spesso la motivazione parte proprio da loro, in alcuni casi non si rendono conto che il gioco del tennis è un percorso educativo esattamente uguale ad altre materie scolastiche».
Vedono nei figli la realizzazione dei propri sogni.
«Guardi, quando pensano a soldi e gloria, l’errore è a monte. Ma, ribadisco, a volte il loro ruolo è molto importante».
Pensa a qualcuno in particolare?
«Alla famiglia di di Djolovic, oppure a quelli di Reger Federer e di Andy Murray».
Diverso il caso delle sorelle Williams, con il padre considerato più un padrone-allenatore che un genitore.
«Lei ha preso in considerazione un caso estremo, quello di un uomo cresciuto in condizioni economico-sociali molto complesse, il quale ha investito tutto sulla emancipazione attraverso le sue bambine».
Anche André Agassi nella sua biografia, racconta il medesimo percorso delle Williams.
«Restiamo sullo stesso campo di rapporti estremi».
Il tennis è uno di quegli sport dove è importante governare la solitudine.
«Sì, è necessario approcciare attraverso due strade: discorso tecnico e l’atteggiamento da mantenere sul campo. Dello spagnolo Nadal uno non si ricorda il rovescio o il dritto, ma la grinta che investe su ogni palla».
Da questo, si evince...
«Più conoscono se stessi e più hanno un approccio corretto, mentre l’allenatore deve trasmettere la tecnica e la tattica, integrate da aspetti da educatore».
A differenza di Fognini, suo ex allievo, celebre per le sfuriate durante i match.
«Bè, a volte Fabio non ha atteggiamenti corretti, ma fuori dal campo è un’altra persona, deve concentrarsi e intraprendere un percorso per restare se stesso anche sul rettangolo di gioco».
McEnroe e Connors sono ancora celebri per le racchette spaccate, gli insulti ad arbitri e avversari, le liti con il pubblico.
«Però erano due che giocavano contro gli altri; Connors, in particolare, era un maestro nell’alterare l’attenzione della partita, mentre Fabio danneggia solo se stesso».
Fognini non domina il campo.
«Allora torno a Nadal: Rafa riesce a spendere almeno 45 secondi tra un punto e un altro quando il limite è di 25. Lui se ne infischia, spezza il ritmo, innervosisce il competitor».
L’azzurro ha margini di miglioramento nonostante i 27 anni?
«È uno da primi dieci al mondo se riesce a migliorare l’aspetto caratteriale. E per fortuna i tempi del tennis si stanno allungando, guardi il caso di Federer, finalista a 33 anni sull’erba di Wimbledon».
Parliamo di uno degli sport più longevi: a livello amatoriale si entra in campo fino a tardissima età...
«Vero. Anche se oggi ho riscontrato casi di eccessiva esasperazione agonistica».
A livello di strutture e organizzazione, qual è la situazione italiana?
«La stupirò, ma credo sia uno dei momenti più favorevoli».
Addirittura!
«Sì, la Federazione nazionale ha lanciato un canale dedicato, accessibile, ottimo per divulgare le basi. Inoltre mi accorgo del numero crescente di maestri, o coach, preparati e seri nel seguire i ragazzi. Sono veramente tanti».
Inoltre, quest’anno, gli Internazionali di Roma sono stati un vero successo.
«Sta diventando uno dei tornei più importanti al mondo, anche questo serve per far crescere giocatori sia di testa sia di tecnica».
Lei ha seguito i primi passi di Djokovic, ha plasmato i primi movimenti. Di lui cosa l’ha colpita?
«In primis la struttura fisica, una flessibilità e una elasticità che gli consente di arrivare sempre prima sulla palla. Una dote del genere è difficilissima da trovare».
Oltre a una solidità nella testa.
«Fondamentale. Ma torniamo all’inizio: quando questi ragazzi hanno una buona conoscenza del gioco, sono molto più attenti su quanto avviene all’interno del campo. Ora mi scusi, la mia pausa è terminata, devo tornare dai ragazzi...».
Sono le 16, il sole più caldo inizia ad allentare, è di nuovo il momento di ragionare su un campo da tennis, e aiutare i ragazzi nel sogno di diventare il nuovo Djokovic, il nuovo Nadal o il sempre verde Federer.