Giampaolo Pansa, Libero 13/7/2014, 13 luglio 2014
LA GUERRA DI ERNESTO SOLDATO A 18 ANNI
Ho letto tante rievocazioni della Prima guerra mondiale, pubblicate per il centenario di quel massacro. Ma nessuna mi ha colpito come i ricordi di mio padre Ernesto, classe 1898. Chiamato alle armi quando aveva 18 anni e quattro mesi, andò subito al fronte nella III Armata del Duca d’Aosta. Era cresciuto nella miseria più nera: sei bambini orfani di padre, il bracciante Giovanni Pansa, morto da giovane mentre zappava il campo di un padrone, e una madre vedova di 33 anni. Ernesto, il penultimo dei sei, aveva imparato a cavarsela da solo. Dopo la quarta elementare, era stato messo al lavoro: guardiano delle mucche, tuttofare nelle cascine, muratore e infine operaio guardafili delle Regie Poste.
La chiamata arrivò il 14 febbraio 1917 e lui si presentò al Distretto militare di Casale Monferrato. Rimase nella caserma Carlo Alberto meno di un mese. Ma era un ragazzo sveglio, sapeva leggere e scrivere in modo spedito, e comprese subito quanto fosse insaziabile la fornace della guerra. L’Italia aveva già perduto molte migliaia di uomini e doveva rafforzare i reparti sul fronte. Ernesto vide in caserma tanti uomini di 42 e 43 anni, padri di famiglia, già vecchi per la vita grama, spesso con una caterva di figli. Poi si rese conto che l’esercito avrebbe preso anche ragazzi più giovani di lui. Nel maggio 1917 venne arruolata tutta la classe del 1899. E dopo la disfatta di Caporetto toccò ai bambocci del 1900.
Ernesto fu inserito nel Genio telegrafisti e con il realismo dei poveri si adattò presto alla condizione del soldato. Tanti anni dopo, quando gli chiesi come si fosse trovato al fronte, rispose: «Non posso dire bene, perché la verità è che mi sono trovato benissimo. L’esercito mi ha dato il primo cappotto della mia vita. Non ne avevo mai posseduto uno, mi difendevo dal freddo con una coperta rattoppata. Quando alla caserma Carlo Alberto mi hanno consegnato il pastrano grigioverde non credevo ai miei occhi!».
«Poi ho ricevuto un paio di scarponi nuovi, mentre ero abituato a scarpe di terza mano che mi regalava il parroco del paese. Da soldato ho sempre mangiato due volte al giorno, un’abitudine che non conoscevo perché a casa ci sedevamo a tavola soltanto la sera, davanti a un piatto di minestra. Nella gavetta trovavo sempre un pezzetto di carne, da noi lo vedevamo il giorno di Natale. Il pane dell’esercito non era granché, ma bastava. In guerra ho assaggiato per la prima volta il cioccolato, ho fumato la prima sigaretta e sono andato con una donna, in uno dei bordelli della III Armata. Il Duca d’Aosta sosteneva che erano i migliori dell’intero esercito italiano».
Il 10 agosto 1917 Ernesto raggiunse il fronte nell’area di Monfalcone. E si trovò nel furore dell’undicesima offensiva dell’Isonzo, iniziata sette giorni dopo e fallita come tante altre. Il Genio non partecipava agli assalti dalle trincee, ma doveva operare su un terreno coperto di cadaveri. Mi raccontò: «Era come una grande semina di morti stecchiti, molto fitta, solco per solco. Noi del Genio ci passavamo attraverso per stendere le linee del telegrafo e dei telefoni da campo. Non mi era mai capitato di vedere un morto. Il giorno che mio padre Giovanni era andato al Creatore, avevo tre anni e mezzo. E non mi ricordavo niente di lui. Adesso di cristiani uccisi ne vedevo centinaia ogni giorno». Ernesto era costretto a camminarci sopra. Li spostava con la pala. Li rivoltava per far passare i fili. Vide come la guerra straziava i soldati. Corpi smembrati dalle granate. Con il cranio scoperchiato. Le facce spaccate a metà, senza naso e orecchie. Bocche prive di labbra e di lingua. Gambe sparite. Braccia tranciate. Feriti ancora in vita, ma ridotti a brandelli di carne. Fu allora che provò la paura. Non di morire, bensì di restare mutilato. Gli era rimasto impresso nella memoria il numero dei mutilati in quella guerra: 219mila. Mi disse: «Quando aiutavo a raccogliere i feriti, mi domandavo sempre: che cosa mi succederà se dovessi restare mutilato? Non potrei più lavorare né da guardafili né da contadino. Diventerei un peso per mia madre Caterina, per le mie sorelle e per Francesco, il fratello piccolo. La mia vita e anche la loro si sarebbe trasformata in un inferno. Molti degli invalidi una volta riportati a casa sono diventati pazzi. E qualcuno si è ucciso. Io sono stato protetto dallo spirito di mio padre Giovanni. Dall’aldilà si sarà detto: ho già dato troppi fastidi alla mia famiglia, devo fare in modo che Ernesto ritorni dalla guerra tutto intero».
Anche il Genio ebbe i suoi morti: almeno 1.400. La fanteria considerava i genieri degli imboscati perché non dovevano subire la tortura della trincea. Ma Ernesto conobbe tutto di quel mattatoio. Il gelo, il caldo, la solitudine, l’insonnia, l’immobilità forzata, la puzza dei corpi, l’odore delle feci, i grossi topi che si mangiavano i cadaveri, l’assalto di milioni di pidocchi. Poi il tormento della sete. L’acqua arrivava alle trincee portata nelle botticelle da cani di grossa taglia. Di abbondante c’era soltanto il cognac. I soldati lo chiamavano «la benzina» perché veniva distribuito prima di ogni assalto, nella convinzione che infondesse coraggio. Tutti bevevano come spugne. Nelle trincee l’odore del cognac era persino più forte di quello dei rifiuti e dei cadaveri. «Ma la benzina», mi raccontò Ernesto, «non ti salvava dalle malattie che uccidevano anche i sopravvissuti agli assalti. La malaria, quella di tipo cerebrale, la più insidiosa. Il tifo petecchiale. Infine il colera. Li ho visti i soldati colerosi. Venivano trasferiti in lazzaretti improvvisati, dentro un edificio abbandonato. Se ne stavano sdraiati sulla paglia, in mezzo ai loro escrementi. Gli unici soccorritori erano i becchini, passavano due volte al giorno a portare via i cadaveri».
Il 6 ottobre 1917 Ernesto compì 19 anni. Nessuno pensò di festeggiarlo. Del resto, il 24 ottobre s’iniziò il disastro di Caporetto. E comparve una pestilenza mai vista: la febbre spagnola. Durante la ritirata Ernesto conservò la divisa, l’elmetto, il fucile, lo zaino e soprattutto la cassetta dei ferri da guardafili. La sua regola fu di restare accanto al proprio ufficiale, seguire i genieri anziani e non disperdersi. Arrivò sulla riva destra del Piave in uno scenario da tregenda: pioggia battente, fiumi in piena, vento gelido e poi nebbia fitta.
Dopo una settimana, Ernesto scoprì di essersi beccato la malaria. Lo stesso accadeva a tanti altri soldati. Alla fine del conflitto si accertò che i militari malarici erano 85mila. E non si riuscì mai a stabilire quanti ne morirono. Ernesto venne fatto partire dal fronte, diretto a Firenze, al deposito del 3 ̊ Reggimento del Genio radiotelegrafisti. Viaggiò sulle tradotte militari con la febbre addosso e una scorta di chinino nel tascapane. Per arrivare a Firenze impiegò 18 giorni.
Era un ragazzo magro, ma di fibra forte. Sopravvisse, guarì e dopo una breve licenza venne rimandato in prima linea. Ci arrivò il 12 aprile 1918 e vi rimase sino alla fine, il 4 novembre, continuando a fare il suo dovere. Quando ritornò a casa, si rese conto che a nessuno importava più della guerra. L’unico che volle sapere delle sue traversie di giovane soldato fu il parroco di San Germano, la frazione di Casale Monferrato abitata dai Pansa. Si fece raccontare tutto per filo e per segno, poi concluse: «Aveva ragione Papa Benedetto XV a dire che le armi servono soltanto a creare l’inferno in terra».