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 2014  luglio 14 Lunedì calendario

LA VERITA’ DI BERLUSCONI

Girano, in questi giorni, molte ricostruzioni sul processo Ruby, più o meno attendibili. Noi pubblichiamo ampi stralci delle dichiarazioni spontanee di Silvio Berlusconi. Lo facciamo all’inizio della settimana in cui i giudici della Corte d’Appello di Milano si riuniranno per deliberare la sentenza di secondo grado.

Signor presidente,
Signore del Collegio,
come sapete questo processo si basa su due punti fondamentali: la mia telefonata della notte fra il 27 ed il 28 maggio 2010 alla questura di Milano e i miei rapporti con Karima El Mahroug detta Ruby. In realtà l’erroneo e pretestuoso filo conduttore di entrambi i capi di imputazione è rappresentato dalle serate che si sono svolte nella mia casa di Arcore: secondo l’accusa avrei telefonato in Questura per evitare che si conoscesse il contenuto di tali serate.
Cominciamo quindi dalle serate. Si è molto favoleggiato ed ironizzato su queste serate, con evidenti intenti diffamatori e con una intrusione nella vita privata di un cittadino che davvero non ha precedenti. Voi ascolterete i testimoni e comprenderete quale era davvero la realtà. Le cene si svolgevano in una grande sala da pranzo, io al centro della tavolata monopolizzavo la conversazione parlando di tutto: di politica, di sport, di cinema, di televisione, di gossip e mi divertivo confezionando battute e cantando le canzoni del mio repertorio giovanile e quelle scritte da me in collaborazione con Mariano Apicella. Apicella si esibiva col suo fantastico repertorio di canzoni napoletane così come il maestro Danilo Mariani che suonava e cantava quasi sempre accompagnato dalla moglie, anch’essa cantante professionista. Dopo la cena alcune volte le mie ospiti organizzavano nel teatro della residenza degli spettacoli con musica e costumi, spettacoli che non avevano alcunché di volgare e scandaloso. E a proposito della dizione «Bunga bunga» questa espressione nasce da una vecchia battuta che ho ripetuto più volte prima dei fatti contestati ed è stata riportata doviziosamente (...)

(...) dalla stampa. Altre volte nella discoteca che era stata dei miei figli si ballava (io però non ho mai partecipato ad alcun ballo) ed accadeva quello che si può vedere in qualsiasi locale aperto al pubblico di ogni età.
Posso quindi escludere con assoluta tranquillità che si siano mai svolte scene di tipo sessuale imbarazzanti. Tutto tra l’altro avveniva alla presenza di camerieri, musicisti, personale di sicurezza, ospiti di una sola serata e, a volte, con l’intervento di miei figli, che venivano a salutarmi. È quindi evidente che non avevo alcun interesse a chiedere alla Questura comportamenti diversi da quelli previsti dalla legge. Di tanto che non ho svolto mai alcuna pressione nei confronti del funzionario della Questura che ho avuto al telefono, al quale, come da lui stesso affermato, mi sono limitato a dare e a chiedere con assoluta gentilezza una semplice informazione.
Ma al di là dei dati oggettivi processuali vi è una considerazione preliminare che è assorbente. Ipotizzare che volessi mantenere segreto lo svolgimento di quelle serate è palesemente risibile. Basta leggere i giornali antecedenti al 27 maggio 2010 per comprendere come la mia vita privata sia sempre stata oggetto di una spasmodica e quasi maniacale attenzione mediatica. Già tutto si era letto delle mie serate a Roma, delle cene a Villa Certosa in Sardegna e nelle mie altre residenze, Arcore compresa, con pubblicazione addirittura di libri, con la illegittima pubblicazione di intercettazioni ambientali, di intercettazioni telefoniche, di reportage fotografici sottratti alla mia privacy. Voglio anche ricordare che di fronte ai cancelli di tutte le mie residenze stazionavano permanentemente, oltre al presidio dei Carabinieri, frotte di fotografi e cameramen, giorno e notte.
Tutto ciò era già accaduto nel periodo anteriore al 27 maggio 2010, periodo durante il quale ho ricevuto, nella massima trasparenza e senza alcuna segretezza, ospiti nelle mie residenze. Parimenti nel periodo successivo e anche dopo che era emerso sui giornali il cosiddetto caso «Ruby», io ho continuato a condurre come al solito la mia vita di relazione. Tanto ero tranquillo del contenuto di queste serate che mai ho disposto controlli o perquisizioni sui miei ospiti. Mai ho chiesto ai miei ospiti di consegnare i telefonini per evitare registrazioni o fotografie, perché nulla di men che lecito o di irriferibile poteva accadere. Mai ho chiesto ai miei ospiti di tenere riservati gli accadimenti delle serate perché non c’era nulla che potesse preoccuparmi.
Ecco perché è fuori da ogni logica e da ogni ragionevolezza collegare la mia telefonata del 27 Maggio in Questura al timore che Ruby potesse raccontare qualcosa di segreto o di scandaloso su queste serate. E del resto se avessi avuto questa preoccupazione mi sarei attivato anche la settimana successiva al 27 maggio quando ebbi notizia che Ruby stesse ancora per essere affidata ad una comunità-famiglia di Genova.
***
Voglio innanzitutto ricordare, nei limiti del possibile, come ho conosciuto Karima El Mahroug cioè Ruby.
Qualche mese prima dei fatti accaduti il 27 maggio Ruby era intervenuta ad una cena presso la mia residenza in Arcore. Non ricordo con chi venne questa prima volta, forse con Lele Mora. È da tener presente che proprio perché durante queste serate amicali non avevo nulla da nascondere, accadeva spesso che i miei ospiti si facessero accompagnare da qualche amico o amica con un semplice preavviso telefonico alla mia segreteria. In quell’occasione Ruby attirò su di sé l’attenzione e l’interesse di tutti i commensali raccontando la sua storia. Ci disse di essere di nazionalità egiziana, figlia di una famosa cantante anch’essa egiziana appartenente ad una importante famiglia imparentata col Presidente Mubarak. Ci fece vedere un video con questa cantante che effettivamente aveva qualche somiglianza con lei. Tali circostanze Ruby le ribadì sempre anche nelle serate successive.
Ci raccontò di essere stata buttata fuori casa dal padre che l’aveva anche picchiata, ci fece vedere una vasta cicatrice sulla testa procuratale dal padre con un getto di olio bollente, il tutto ci disse, a causa della sua decisione di convertirsi alla religione cattolica. Ci raccontò di essere arrivata a Milano un mese prima e di essere stata ospitata da un’amica. Una sera questa amica, dopo un litigio, le fece trovare la porta chiusa e le sue valigie fuori dalla porta. Ci raccontò di essere uscita sulla strada e di essere rimasta seduta a piangere sulle sue valigie sotto la pioggia, per tre ore, essendo senza un soldo e non sapendo che fare. Finalmente un taxi si fermò, il conducente ne discese e le chiese se avesse bisogno di aiuto. Lei piangendo gli raccontò di non sapere dove andare a dormire e di essere senza soldi. Lui si commosse e la portò a casa sua, comportandosi da vero gentiluomo. Nei giorni seguenti le trovò un lavoro da cameriera nel ristorante di un suo conoscente. Lei iniziò a lavorare in questo ristorante ma il proprietario non le dava pace, la tormentava e voleva avere rapporti intimi con lei.
Questa era la storia che lei ci rappresentò piangendo e facendo commuovere molti tra i miei ospiti. Le offrii subito un aiuto economico per il suo sostentamento e per cercarsi una casa in locazione e le assicurai di poter contare sul mio interessamento e sul mio aiuto. Fece conoscenza con alcune delle mie ospiti ed in seguito intervenne con loro ad altre cene a casa mia. Durante una di queste occasioni mi raccontò di avere l’opportunità di entrare come socia in un «centro estetico» di una sua amica, in Via della Spiga a Milano. Mi mostrò un lungo elenco di laser e di altre apparecchiature che le avrebbero consentito di diventare socia della sua amica al 50%. Il costo di quelle apparecchiature era di 57.000 euro. Mi chiese se potevo farle un prestito assicurandomi che con gli utili della sua attività mi avrebbe reso l’intera somma. Io la inviai dal mio amministratore che le consegnò quanto richiesto. Lo feci convinto che questo fosse proprio il mezzo per consentirle una vita decorosa senza dover subire accadimenti quali quelli da lei narrati. Proprio il contrario di quello di cui vengo paradossalmente accusato.
Desidero anche ricordare che tutti avevamo l’assoluto convincimento che Ruby fosse maggiorenne, sia perché lei aveva detto a tutti di avere 24 anni, sia per il suo modo di esprimersi proprio di una ragazza matura, sia per il suo aspetto fisico, sia perché mai avrei pensato che una minorenne potesse intraprendere una attività come quella che le avevo finanziato. Inutile dire che non ho avuto alcun tipo di rapporto intimo con lei e che, durante la sua permanenza alle cene, non vi sono mai stati accadimenti di natura men che lecita. È anche per questo che qualsiasi ricostruzione tesa a ipotizzare che successivamente avrei offerto del denaro a Ruby perché non raccontasse cosa fosse accaduto durante quelle serate, è palesemente priva di fondamento.
Come risulta dagli atti, Ruby infatti aveva già reso amplissime dichiarazioni di totale e pura fantasia, alcune delle quali certamente a me non favorevoli, quantomeno sotto l’aspetto mediatico. Debbo quindi ritenere che quando Ruby in qualche conversazione telefonica aveva fatto riferimento a somme di denaro che pensava di poter ottenere da me si trattasse di sue fantasie prive di qualsiasi aggancio fattuale o verosimilmente di propositi che qualcuno potrebbe averle suggerito per ottenere dei vantaggi economici e magari per trattenere per sé una parte di questi vantaggi. L’unico timore che io avrei quindi potuto avere in questa vicenda non è già che Ruby raccontasse il vero, ma che Ruby o chi per lei si inventasse cose non vere, che sarebbero state certamente utilizzate contro di me.
Ripetendomi, posso confermare ancora una volta che mai ho avuto rapporti intimi di qualsiasi tipo con Ruby, della cui minore età comunque non ero assolutamente a conoscenza. E ancora, che mai ho avuto preoccupazione alcuna che si potessero inventare e narrare da parte dei miei ospiti degli accadimenti indecenti occorsi durante le serate che si svolgevano presso la mia abitazione.
***
Venendo ai fatti del 27 maggio 2010 cercherò nel limite dei miei ricordi, di offrirvi elementi utili per la ricostruzione dell’accaduto anche se, obiettivamente, si trattava di un episodio marginale rispetto alle mie molteplici incombenze e attività da presidente del Consiglio.
Debbo ricordare innanzitutto che quel giorno presiedetti a Parigi una importante riunione dell’Ocse cui partecipavano oltre cinquanta Stati. Nel corso della serata ricevetti alcune chiamate riguardanti la vicenda oggetto di questo processo. Il cellulare a cui pervennero queste chiamate era in possesso del mio capo scorta o del mio staff. Dagli atti del processo ho poi rilevato che il telefonino aveva ricevuto una chiamata da tale Michelle Conceicao. Io non ricordo di aver mai parlato con questa Conceicao. Ricordo invece la telefonata della signora Miriam Loddo che mi comunicava che Ruby le aveva telefonato in lacrime per dirle che si trovava alla Questura di Milano dove era stata accompagnata e trattenuta perché accusata di un furto e trovata sprovvista di documenti.
A questo punto è opportuno specificare la ragione per la quale quando l’on. Valentini, avendo ascoltato la telefonata con la Loddo mi chiese se volevo che contattasse la Questura di Milano. Risposi affermativamente poiché ritenevo, oltre alla mia propensione ad aiutare una persona in difficoltà, che da quella circostanza sarebbero potute derivare delle implicazioni diplomatiche negative.
Ma la vicenda va contestualizzata nel periodo in cui effettivamente accadde. Nella prima parte del 2010 era accaduto un grave incidente internazionale fra la Confederazione Elvetica e la Libia, incidente che aveva attirato l’attenzione di tutta la stampa occidentale. Uno dei figli di Gheddafi, Hannibal, a seguito di una denuncia per violenze, era stato arrestato in Svizzera. Il leader libico, per ritorsione, aveva congelato tutte le attività svizzere in Libia, aveva ritirato il visto a tutti i cittadini svizzeri e aveva trattenuto per ritorsione sul proprio territorio dei cittadini elvetici cui venne impedito di ripartire.
Ebbene il giorno 27 marzo 2010 si tenne a Sirte il vertice della Lega Araba a cui fui invitato come ospite d’onore. In quella circostanza, dopo una lunga trattativa con Gheddafi, conseguii un rilevante successo ottenendo la revoca dei provvedimenti contro i cittadini svizzeri in tema di visti. Non ero riuscito invece a risolvere il divieto di rientro in patria di due importanti uomini di affari svizzeri. Mi occupavo di queste situazioni perché la Confederazione Svizzera, al corrente dei miei rapporti con la Libia, mi aveva chiesto se potevo intervenire sul Colonnello Gheddafi al fine di ottenere la loro liberazione. Lo feci con diversi interventi nei mesi successivi e, finalmente il 13 giugno del 2010, sedici giorni dopo il 27 Maggio, riuscii a risolvere il problema di cui mi ero interessato quasi quotidianamente.
Il 13 giugno 2010 infatti, si svolse a Tripoli un summit dell’Unione Africana a cui parteciparono i vertici dell’Unione Europea e i leader di alcuni Stati europei. Gheddafi volle pranzare da solo con me in una sala riservata e durante il pranzo, nonostante le mie insistenze, mi confermò che l’ultimo uomo d’affari svizzero trattenuto in Libia Max Goldi sarebbe stato trattenuto ancora in Libia in seguito alla sua condanna a quattro mesi di carcere.
Alla fine del pranzo chiesi a Gheddafi quale sarebbe stato il menù per la cena. Mi guardò stupito e io gli comunicai che sarei rimasto in Libia suo ospite fino a quando non avesse rilasciato anche l’ultimo cittadino svizzero. Rise di questa mia insistenza, sembrò non prendere sul serio la mia minaccia e mi ricordò ancora che questo signore doveva attendere il risultato del ricorso presso l’Alta Corte di appello. Io non mi detti per vinto e continuai a confermargli che comunque sarei rimasto come suo ospite. Se ne andò scuotendo la testa ma ridendo. Qualche ora più tardi mi fece comunicare dal suo segretario particolare che Max Goldi era stato messo su un aereo per la Svizzera perché, testuale, «la Libia non poteva permettersi il lusso di mantenere, oltre a un ricco imprenditore svizzero, anche un ricco presidente italiano».
L’incidente internazionale originato dall’arresto del figlio di Gheddafi mi aveva quindi occupato a lungo e quando mi fu comunicato che Ruby, per quanto a mia conoscenza, egiziana e parente di Mubarak si trovava trattenuta in Questura, mi venne spontaneo paragonare questa vicenda proprio alla vicenda del figlio di Gheddafi e immaginai subito che tale situazione avrebbe potuto creare un incidente diplomatico con Mubarak.
Infatti nel corso del vertice italo-egiziano che si era tenuto otto giorni prima del 27 maggio cioè il 19 maggio 2010, a Villa Madama, durante il pranzo, terminata la parte ufficiale dei negoziati avevo chiesto notizie di questa Ruby allo stesso presidente Mubarak raccontandogli di come l’avevo conosciuta e della sua storia, convinto com’ero che fosse una sua parente.
Alla mia domanda se conoscesse la madre di Ruby la risposta fu affermativa e mi disse che si trattava di una famosa cantante che effettivamente faceva parte della sua cerchia parentale ma che non era a conoscenza del fatto che avesse una figlia messa fuori casa per problemi di religione. L’argomento «Ruby» occupò la conversazione, di fronte ai molti commensali, per diverso tempo. Mubarak mi assicurò che si sarebbe informato e che mi avrebbe fatto sapere. Rimasi quindi nel convincimento che Ruby potesse avere davvero un legame parentale con il presidente egiziano. Per questo, quando l’on. Valentini la sera di otto giorno dopo a Parigi mi chiese se fosse il caso di assumere informazioni presso la Questura, gli risposi affermativamente.
Come ho già ricordato, mi venne spontaneo paragonare la circostanza del fatto che Ruby fosse trattenuta in Questura proprio con la vicenda di cui mi stavo occupando, del figlio di Gheddafi trattenuto in Questura dagli svizzeri. Immaginai subito che tale situazione avrebbe potuto creare un incidente diplomatico. Mubarak non era certo Gheddafi ma era pur sempre un autocrate cui sarebbe stato difficile comprendere che un premier, che gli aveva egli stesso parlato di questa persona descrivendogliela come una sua parente, avesse potuto permettere uno sgarbo, un’offesa così grande ad un caro amico e collega.
Tornando alla notte del 27 maggio parlai con Nicole Minetti che già aveva saputo da un’amica di quanto stava accadendo a Ruby e che quindi confermò quanto dettomi poco prima dalla Loddo. Poiché mi era stato riferito che si trattava esclusivamente di un problema di identificazione, essendo la ragazza sprovvista di documenti, ritenni utile chiedere alla Minetti che aveva conosciuto bene Ruby da me, e ne era diventata amica di recarsi in Questura per agevolare tale identificazione. La decisione quindi di contattare la Questura fu suggerita dall’on. Valentini prima e poi dal capo-scorta Ettore Estorelli, il quale ci disse che avrebbe potuto assumere informazioni tramite un funzionario con cui si rapportava per i nostri spostamenti. Io non sapevo neppure chi fosse questo funzionario né che ruolo ricoprisse nella Questura di Milano, ma ero interessato a sapere se effettivamente vi fosse un problema per l’identificazione della ragazza. Il mio capo scorta chiamò questo funzionario, che si trovava già nella propria abitazione, il dottor Ostuni, mi passò il telefono e la mia conversazione con lui fu estremamente breve. Mi limitai a chiedergli se poteva confermare o meno che vi fossero problemi per l’identificazione di una giovane di nome Ruby di cittadinanza egiziana, e gli dissi che mi risultava che questa giovane potesse avere rapporti di parentela con il presidente Mubarak. Gli riferii che per agevolare le operazioni di identificazione avevo chiesto al consigliere regionale Nicole Minetti di recarsi presso la Questura.
Mi sembrò una scelta logica, opportuna e doverosa proprio per evitare, ripeto, il rischio di un potenziale incidente diplomatico. Non dissi altro e non chiesi in alcun modo al dr. Ostuni di intervenire sulle procedure, né avrei potuto farlo perché non ero a conoscenza di cosa realmente stesse accadendo in Questura. Dopo queste telefonate decollammo da Parigi e quando atterrammo a Roma, senza che vi fossero stati altri ulteriori contatti telefonici, il mio capo-scorta Estorelli chiamò Ostuni che gli disse che era in corso l’identificazione della ragazza ma che la situazione era in via di risoluzione. A questo punto io non feci null’altro. Qualche tempo dopo Nicole Minetti mi chiamò per mettermi al corrente della situazione. Mi raccontò che Ruby era stata identificata e che era risultata non essere egiziana bensì di nazionalità marocchina e per di più minorenne. La notizia mi lasciò di stucco e mi resi finalmente conto che Ruby aveva mentito con tutti e si era costruita una seconda diversa identità per coprire la sua condizione reale. Di conseguenza ritenni di non dovermi più preoccupare di lei, ma quanto al possibile incidente diplomatico, tirai un bel sospiro di sollievo.
Per concludere l’episodio: la mia telefonata in Questura fu solo di natura conoscitiva tesa unicamente a dare e ad ottenere una informazione e la prova ne è che non ritenni di dover chiamare i responsabili istituzionali e cioè né il Questore né il Prefetto, come sarebbe stato evidentemente agevole e naturale per il presidente del Consiglio. Così come non avevo ritenuto di chiamare il nostro ministro degli Esteri o l’Ambasciatore egiziano prima di aver accertato quale fosse la situazione. È ovvio che allertare i canali diplomatici senza una previa verifica avrebbe potuto creare di per sé un inutile incidente.
Debbo altresì ricordare che io non avevo affatto chiesto che la ragazza venisse affidata alla Minetti, essendomi limitato a chiedere alla stessa Minetti di recarsi in Questura unicamente per agevolare l’identificazione della ragazza. Il suo affido ad una comunità-famiglia mi sembrava opportuno e così, quando una settimana dopo Ruby fu fermata nuovamente dalla polizia e affidata ad una comunità-famiglia di Genova, non ritenni di dovermene preoccupare. Successivamente a tali fatti io non mi sono più occupato delle vicende della ragazza. Ho saputo però che il mio amministratore rag. Spinelli le consegnò successivamente, a seguito di continue e reiterate insistenze, una somma di qualche migliaio di euro. Voglio infine ribadire che i miei rapporti con le mie ospiti, che conoscevo nella grande maggioranza da molti anni, erano basati sulla simpatia, su un’antica amicizia, sul cameratismo, e quindi sull’affetto e sul rispetto. Con tutte loro con c’è mai stata in assoluto alcuna dazione di denaro per ottenere rapporti intimi. Devo anche affermare con forza che nessuna delle mie ospiti poteva essere classificata, per quanto a mia conoscenza, come «escort» come invece poi è accaduto sui media nazionali ed internazionali e tantomeno come «prostitute» come le ha definite la dottoressa Boccassini.
Queste definizioni e questo processo hanno devastato la vita di queste ragazze che da allora sono nell’impossibilità di trovarsi un fidanzato serio, un lavoro decente, una casa in affitto. E questa è la parte più drammatica e più dolorosa di questo processo che ha prodotto una mostruosa operazione di diffamazione internazionale per me e per le mie ospiti. In realtà (e fortunatamente) la mia capacità economica mi ha consentito sempre di aiutare chi si trova in difficoltà. Da quando è iniziata questa operazione diffamatoria mi sono sentito in dovere di aiutare molte di queste ragazze.
Se in un paese non ci fosse più la certezza dell’imparzialità dei giudici, questo Paese sarebbe un Paese incivile, barbaro, invivibile e non sarebbe nemmeno più una vera democrazia. Io credo invece che in Italia, il mio paese, il paese che amo, il paese che tutti noi amiamo, debba ritornare ad esserci la certezza sulla imparzialità dei giudici. Ed è per questo che, contro il parere di molti, ho deciso di rilasciare queste «dichiarazioni spontanee» illustrando i fatti nella loro concreta realtà.
Vi ringrazio.