Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 14 Lunedì calendario

IL BOSS DELLA SACRA CORONA UNITA STA IN 41 BIS E DIVENTA PADRE

Esistono casi in cui il diritto alla paternità non conosce limiti e confini. Lo dimostra la vicenda che vede come protagonista Armando Libergolis, esponente dell’omonimo clan mafioso, condannato a scontare ventisette anni di reclusione in regime di massima sicurezza. Il detenuto infatti, nonostante la sua libertà personale sia limitata e regolata dall’articolo 41 bis, è riuscito a far spiccare il volo alla "cicogna" e lo ha fatto da dietro le sbarre del carcere Mammagialla, a Viterbo. Non si tratta di un miracolo ma della possibilità, per i detenuti in regime di "carcere duro", di utilizzare la tecnica della procreazione assistita. La sentenza che riconosce anche ai detenuti pericolosi il diritto a diventare padri, da dietro le sbarre, è destinata a far giurisprudenza. Sia la Cassazione che il magistrato del tribunale di sorveglianza di Viterbo, avevano già sentenziato e stabilito la possibilità, per i carcerati, di ricorrere ai benefici previsti dalla legge 40 del 2004: «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita». In quel caso però poteva diventare padre solo il detenuto che riusciva a dimostrare di aver avuto rapporti sessuali con il proprio partner, per almeno un anno e senza risultati, conclamando dunque uno stato di sterilità. Naturalmente per un uomo recluso in regime di massima sicurezza non vi è la possibilità di trascorrere con la propria compagna il tempo previsto dalla legge. Il professor Luca Ripoli, legale di Libergolis, è quindi riuscito a dimostrare alla corte lo stato d’infertilità della compagna del detenuto e quindi l’impossibilità della coppia ad avere figli. La richiesta di fecondazione assistita, esternata dal detenuto nel 2013, è così stata concessa all’inizio dell’anno successivo sia dal tribunale di Viterbo che dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria della stessa città. Quindi la provetta contenente il liquido seminale di Armando Libergolis ha potuto varcare le mura di cinta del carcere e raggiungere un laboratorio di analisi della Capitale, dove nell’aprile scorso l’intervento è stato effettuato senza problemi. La futura mamma è la moglie del carcerato, Maria Riccardo. La donna, insieme al marito, sta anche affrontando un processo penale che sembra però destinato a concludersi con l’intervento della prescrizione. I due imputati sono accusati di aver frodato e truffato l’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura. Invece Armando Libergolis, ritenuto essere un esponente del "clan dei Montanari", una famiglia mafiosa legata alla Sacra Corona Unita e presente soprattutto nella provincia di Foggia, è in carcere da molti anni. Tra il 1998 ed il 2001 aveva scontato la pena in diversi istituti penitenziari della penisola. Nel 2003 era stato però raggiunto da un’altra ordinanza di custodia cautelare, frutto di un’indagine storica, iniziata nel 1999 e terminata con il processo Iscaro-Saburo, uno dei procedimenti giudiziari più importanti dopo il maxiprocesso a Cosa Nostra. Accusato di aver fatto parte di un’associazione mafiosa armata e dedita anche al narcotraffico, doveva difendersi, tra l’altro, dall’accusa che lo riteneva responsabile di diversi omicidi, il primo commesso nel 1978. In appello era stato però assolto dall’accusa di omicidio ed era stato condannato per gli altri capi d’accusa. Da allora l’imputato aveva trascorso la sua vita in carcere ma la reclusione non è bastata ad impedirgli di diventare padre e adesso attende la nascita del suo erede. «Il 41 bis è una forma di deprivazione applicata a persone che sono già private della libertà personale - afferma il professor Luca Ripoli, l’avvocato che assiste il futuro papà - A mio giudizio è una tortura e sono felice di aver conquistato una vittoria che riconosce il diritto alla paternità».