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 2014  luglio 13 Domenica calendario

I POLITICI, I GIUDICI E NOI. IL TRIANGOLO DELLE BERMUDA

Come ha raccontato Paolo Lepri sul Corriere del 30 giugno, Christian Wulff, accusato di interesse privato in atti d’ufficio, è stato riabilitato dalla giustizia tedesca. La notizia potrà sembrare irrilevante soltanto a chi non ricorda che Wulff, quando i giornali tedeschi cominciarono a occuparsi della sua vicenda (un prestito a tassi di favore ottenuto da un industriale per la costruzione di una casa) era presidente della Repubblica federale. Cercò di negare o minimizzare, ebbe una tempestosa conversazione con il direttore della «Bild» (il più letto e aggressivo dei quotidiani tedeschi) e alla fine dovette dimettersi. Oggi l’onore è salvo, ma la carriera politica di un uomo che fu definito il «Kennedy tedesco», è fortemente pregiudicata. Avrà diritto a un risarcimento? Forse, ma soltanto sul piano morale.
Il caso di Nicolas Sarkozy è diverso e ricorda la storia giudiziaria di Silvio Berlusconi. La magistratura francese sta indagando su reati di corruzione e concussione che Sarkozy avrebbe commesso quando era presidente della Repubblica. L’imputato, se l’indagine diventerà un processo, non ha cariche da cui dimettersi se non quella di membro del Consiglio costituzionale (l’organo dello Stato francese a cui appartengono di diritto tutti i presidenti della Repubblica dopo la fine del loro mandato), ma il caso è scoppiato mentre l’ex presidente stava per annunciare il suo ritorno alla vita politica. Non sorprende quindi che, come Berlusconi, Sarkozy abbia denunciato un complotto giudiziario contro la sua persona e la politicizzazione della giustizia. Lo pensano, anche quando non lo dicono espressamente, molti altri uomini politici, non soltanto italiani, che sono stati indagati, processati e condannati o assolti soprattutto negli ultimi decenni. Ma la maggioranza della popolazione, nelle democrazie dell’Occidente, sembra piuttosto convinta del contrario e tende a condannare il politico sospettato o imputato senza attendere la sentenza di un giudice.
Nelle sue grandi linee il fenomeno non è nuovo. Corruzione e concussione sono da sempre il «rischio professionale» di tutti i sistemi politici. Non esiste regime in cui il titolare di un potere non abbia ceduto alla tentazione di «monetizzare» la sua autorità. L’argomento con cui il politico corrotto si assolve nell’intimità della sua coscienza è sempre lo stesso: se la firma di un decreto o l’approvazione di un piano regolatore può arricchire alcune persone, perché non dovrei partecipare alla spartizione dei benefici? Nei regimi che si pretendono virtuosi, come le democrazie, il reato è ancora più spregevole ma non meno frequente.
Il problema, quindi, non è il reato, ma la crescita esponenziale del fenomeno e soprattutto la presunzione di colpevolezza ormai diffusa nella pubblica opinione. Abbiamo dunque una classe politica più corrotta e corruttibile di quella dei nostri padri e dei nostri nonni? A me sembra più utile ricercare i fattori che stanno progressivamente ingrossando, agli occhi della pubblica opinione, la legione dei corrotti.
Occorre muovere dall’osservazione che i criteri morali con cui i cittadini giudicano i loro rappresentanti sono alquanto diversi da quelli di trenta o quarant’anni fa. La corruzione veniva allora deplorata e denunciata, ma anche considerata con una combinazione di cinismo, fatalismo e, soprattutto, opportunismo quando i peccati dei politici potevano giustificare quelli con cui i cittadini evadevano il fisco o aggiravano le leggi dello Stato. Oggi invece il cittadino è arrabbiato, indignato e vede nell’intera classe politica una banda di profittatori, approdati alla vita pubblica per godere dei privilegi che la «casta» ha distribuito a se stessa. In quest’indignazione vi è una buona dose di gelosia e di invidia, ma anche un uso esasperato e irrazionale del concetto di eguaglianza. L’égalité è diventata più importante, per certi versi, della liberté e della fraternité. Il fenomeno è comune a molte democrazie ma è particolarmente visibile in Italia dove è cresciuto di pari passo con il peggioramento dell’apparato statale e l’invecchiamento della carta costituzionale. La lunga stagnazione, dopo la crisi del 2008, è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In un quadro di strettezze e crescente disoccupazione, i troppi privilegi della classe politica e di parecchi uomini d’affari sono divenuti ancora più intollerabili. È inevitabile, in queste circostanze, che ogni indagine, sin dalle sue fasi preliminari, venga accolta come la conferma di un pre-giudizio.
Anche i mezzi d’informazione hanno la loro responsabilità. In un momento in cui il loro futuro è minacciato dagli effetti difficilmente prevedibili delle nuove tecnologie della comunicazione, gli organi dell’informazione cedono spesso alle tentazione di sintonizzarsi con gli umori della pubblica opinione e rafforzarne le convinzioni. Rendono un frettoloso omaggio, di passaggio, alla presunzione d’innocenza ma divengono, a tutti gli effetti, obiettivamente colpevolisti.
Fra i fattori che hanno contribuito a creare il clima sociale in cui la politica appare sempre necessariamente corrotta, vi è quello giudiziario. Stiamo attraversando una fase storica caratterizzata da una fioritura di nuovi diritti: da quelli che concernono l’esistenza e la vita affettiva a quelli che concernono i rapporti del cittadino con lo Stato, le imprese, le banche e chiunque gli fornisca servizi necessari alla sua esistenza. I nuovi diritti hanno bisogno di nuove leggi, ma nascono quasi sempre nelle aule di un tribunale. Come abbiamo constatato nel caso della legge sulla procreazione assistita, una sentenza può essere più importante di un disegno di legge e i giudici, di conseguenza, sono diventati legislatori. Non basta. Dopo Tangentopoli si considerano investiti di una missione nazionale, custodi della legge, autorizzati a farne uso per le loro crociate civili. La norma costituzionale sull’obbligatorietà dell’azione penale ha emancipato i procuratori dalla loro tradizionale soggezione al Guardasigilli, ma li ha resi al tempo stesso liberi di scegliere quale azione penale meriti di essere perseguita. È nata così una figura nuova: il magistrato che può essere oggi procuratore e domani giudice, che può scegliere i reati da perseguire, che può servirsi delle sue sentenze per interpretare e modificare le leggi. Era inevitabile che un tale ampliamento della funzione giudiziaria creasse una nuova tipologia di magistrati, spesso alla ricerca di un palcoscenico su cui acquistare popolarità e, in troppi casi, preparare il proprio ingresso nella vita politica.
In questo triangolo delle Bermuda formato da politica corrotta, giustizia ambiziosa e pubblica opinione colpevolista esiste infine il fattore tempo. Il caso di Christian Wulff scoppiò nel dicembre 2011, il presidente si dimise nel febbraio 2012 e la sentenza che lo assolve è stata pronunciata nelle scorse settimane: due anni e mezzo durante i quali l’ex presidente della Repubblica federale è stato per molti dei suoi connazionali un presunto colpevole. L’attesa è stata lunga, ma più breve del limbo in cui vivono i presunti colpevoli della vita pubblica italiana dal momento in cui vengono iscritti nel registro degli indagati alla sentenza definitiva. Aggiungo che persino una eventuale assoluzione, a quel punto, verrebbe inevitabilmente accolta con scetticismo e diffidenza.
Una democrazia afflitta da questi mali non può durare a lungo. Spetta ai politici, in primo luogo, vigilare su se stessi e pulire la propria casa. Ma occorre anche evitare di piegare lo Stato agli umori colpevolisti della pubblica opinione come accadrebbe, ad esempio, se fosse abolito ciò che ancora rimane della immunità parlamentare. E occorre ricordare ai magistrati che non possono essere contemporaneamente titolari della più delicata tra le pubbliche funzioni e una corporazione sindacale, riluttante ad accettare qualsiasi modifica del loro status.