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 2014  luglio 14 Lunedì calendario

STATISTA ANCHE NELLA PAROLA



Qui deve esserci un errore, fu più o meno quello che Winston Churchill scrisse nell’autunno del 1953 all’Accademia Svedese per ringraziare del Premio Nobel per la Letteratura. Certo, la letteratura era in parte una scusa: il prestigioso Premio andava a fregiare il vincitore di Hitler. Ma era anche vero che alla letteratura Churchill si dedicava da sempre. Quelle sue parole (testualmente, «I feel we are both running a considerable risk and that I do not deserve it»), se sembravano voler riaffermare la preminenza dell’attività politica (non a caso gli impegni istituzionali gli impedivano di andare a ritirare il premio), vanno prese per la solita protesta di understatement che un inglese si sente di dover articolare quando è messo al centro dell’attenzione.
Proprio nel 1953 usciva l’ultimo volume della monumentale Seconda guerra mondiale, l’opera cui tuttora è legata la fortuna letteraria di Churchill. Ma prima di quella vennero molte altre migliaia di pagine, per decine di volumi: libri di guerra (sull’India e sul Sudafrica), raccolte di articoli giornalistici, di dispacci, di discorsi (sulla guerra, sulla riforma militare, sul liberalismo, eccetera), una biografia dell’ingombrante padre, Lord Randolph, un’altra dell’antenato John Churchill, primo duca di Marlborough, il resoconto di un viaggio per l’Africa orientale, un capolavoro come La crisi mondiale, studio in cinque volumi degli anni 1911-1928, il memorial La mia giovinezza, saggi sul futuro dell’umanità, ritratti di contemporanei, Grandi contemporanei, perfino un romanzo (pare, orribile), parecchi racconti. E dopo, fino alla morte e oltre, sarebbero uscite una Storia dei popoli di lingua inglese, diverse raccolte di altri discorsi, un saggetto sul dipingere per passatempo. Non c’è dubbio che Churchill credeva nella parola scritta come pochi altri uomini di Stato. Il portavoce dell’Accademia svedese, nel discorso di presentazione, lo paragonò a Giulio Cesare, a Marco Aurelio e al più vicino Disraeli, il quale fu autore di parecchi romanzi. Non sono paragoni strampalati, dopo tutto.
Una recente biografia, The Literary Churchill. Author, Reader, Actor, di Jonathan Rose, è interamente centrata sui modi in cui politica e letteratura si sono combinati nella vita pubblica di Churchill. L’impostazione è chiaramente originale, perfino pionieristica; ma, forse, semplicistica in certe conclusioni, nel credere che se leggi o scrivi questa cosa, allora fai quest’altra; insomma, nel voler stabilire a qualunque costo rapporti causali tra letteratura, consumata o prodotta, e prassi (Winston non è certo riducibile al caso di un Menocchio). In fondo, la ricostruzione della biblioteca di un individuo è già di per sé un risultato di notevole interesse e, se qualcosa aiuta a capire, questo è il mondo che gli sta attorno o, non meno interessante, altri aspetti della sua vita, ovvero non tanto le ragioni quanto i modi, lo stile, la sensibilità, la personalità (nozione nella quale Churchill credeva in modo profondo). Va a sapere poi se dobbiamo imputare proprio a quella biblioteca le azioni dell’individuo...
A ogni modo, Rose ha messo insieme una ricerca ben documentata, una somma di materiali anche rari, da cui esce un ritratto davvero stimolante di quell’eroe nazionale. Scopriamo, per esempio, che, ragazzino, scriveva lettere ai genitori con grande impegno; che nel 1897, ventitreenne, compose una sua ars rhetorica, rimasta inedita, tutta puntata al rispetto dell’efficacia verbale e della varietas; che non amava particolarmente i classici latini e greci e che a questi preferiva di gran lunga i moderni; che adorava il teatro anche nelle forme più popolari e i libri di fantascienza. Nel febbraio del 1908, rivolto all’Author’s Club, pronunciò una fiera difesa dello scrivere, di cui qui traduco qualche punto: «non è l’autore un uomo libero? Libero come pochi altri sono./ Non gli servono ingombranti mucchi di materia grezza, strumenti ricercati, assistenza di umani o di bestie. La sua occupazione lo fa dipendere esclusivamente da se stesso / È il sovrano di un impero / Nessuno può sequestrargli le sue terre / La penna è la grande liberatrice di uomini e nazioni. Nessuna catena può legare, nessuna povertà può soffocare, nessuna imposizione può restringere il libero gioco della sua mente / io mi sento profondamente grato di esser nato con questo amore della scrittura eccetera».
Rose insiste in più momenti sull’importanza del teatro – lui che è a sua volta un patito di teatro, come ha dichiarato in alcune interviste – e dimostra che idee centrali come quella di guerra o di politica per Churchill si fondavano su metafore letterarie e teatrali. Parlare, allora, è recitare; una guerra è un dramma, con palcoscenico, attori e atti. Il suo stesso "ruolo", d’altronde, lo portava a "performare" in continuazione. I suoi discorsi sono, davvero, momenti di alta teatralità; e i suoi ritratti squisiti studi di personaggio. Certo, vorrei sottolineare, non più di quelli di un buon retore classico. Per cui mi chiedo se Rose, scavando in quella direzione, non avrebbe potuto scoprire più debiti con Cicerone o Quintiliano che non con l’istrionismo di un mai apertamente citato Oscar Wilde o con il cosiddetto "melodrama", ovvero teatro popolare (non il nostro melodramma). Se il teatro contava così tanto, come si spiega che all’onnipresente, universale, imprescindibile padre, William Shakespeare, lo stesso Rose fa solo qualche vago accenno?
Questo interrogativo mi porta a sottolineare che il volume avrebbe guadagnato non poco se l’autore fosse stato anche un critico letterario.
Gli scritti e le letture di Churchill, infatti, meritano di essere esplorati e compresi anche rispetto a questione di stile, di filologia e di genere. Comunque, grazie a Rose per questo lavoro utile, che alla novità del taglio e delle informazioni aggiunge lo stimolo a interrogarci una volta di più sul linguaggio dei nostri politici e sui limiti di una politica senza letteratura.