Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano 13/7/2014, 13 luglio 2014
CROCE, I LIBRI E I RAGAZZI DELLA FGCI IL DOVERE DI ESSERE UN EDITORE
[Intervista Giuseppe Laterza]
Giocando con il lettore sulla vicenda del famoso manoscritto, alla fine dell’Introduzione ai Promessi sposi, l’autore dichiara: “Di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo”. L’ironia manzoniana torna in mente in un pomeriggio ventoso di luglio ai Parioli, dove una villetta anni Trenta ospita la sede romana della Laterza. Giuseppe – classe 1957, quarta generazione di editori – fa gli onori di casa nel tour che passa per sale e salette, mille foto seppiate alle pareti, una stanza degli incontri che un tempo lontano ospitava quartetti d’archi e matrimoni. Molti libri, naturalmente. “Ci siamo trasferiti qui negli Anni Settanta, la sede la trovò mia madre”. La storia però era iniziata molto tempo prima. “Credo fareste bene ad astenervi almeno dall’accettare libri di romanzi, novelle e letteratura amena. E ciò per comparire come editore con una fisionomia determinata. Ossia come editore di libri politici, storici, di storia artistica, di filosofia: editore di roba grave”. Il consiglio – destinato a essere seguito alla lettera – arriva da Benedetto Croce. Correva l’anno 1901: più di cento anni dopo il marchio crociano resiste.
Come comincia tutto?
L’azienda viene fondata dai 5 figli di Giuseppe Laterza, un falegname pugliese: c’è, nella nostra storia, una discendenza merceologica del libro, dal legno e dalla carta. Il più giovane, Giovanni, nel 1901 apre la casa editrice. Prima pubblica titoli a carattere locale, poi decide di fare un salto di qualità e parte per Napoli, la grande capitale culturale del Sud. Tra gli altri va a trovare Benedetto Croce che per metterlo alla prova, gli chiede di tradurre un libro di due inglesi, Bolton King e Thomas Okey. Nel saggio, L’Italia d’oggi, si raccontano problemi economici, sociali e culturali dell’Italia dell’epoca. L’incipit è questo: ‘Uno dei primi fatti che fermano l’osservatore della vita pubblica italiana è la confusione e la decadenza dei vecchi partiti politici. Essi han perso fede nei loro princìpi, nel loro paese, in se stessi. L’azione loro sembra poco meglio di una interessata lotta per raggiungere cariche pubbliche e di una cieca resistenza a forze che non sanno comprendere e assimilare e pertanto temono’. Le dice niente? Comunque Croce è contento della riuscita di questo primo titolo e commissiona altre opere: più in là ci farà pubblicare anche i suoi libri.
L’imprimatur del papa laico.
Non era ancora diventato ‘papa laico’, ma era già un importante filosofo. A un certo punto Croce pubblica la Storia d’Europa nel secolo decimonono dove dà un giudizio drastico sul suo vecchio amico Giovanni Gentile, che era già stato ministro della Pubblica istruzione. Gentile s’arrabbia, scrive una lettera a Laterza, di cui era autore, dicendo ‘Non posso continuare a pubblicare per voi se Croce non cambia il suo giudizio su di me’. Imbarazzato, Giovanni si rivolge a Croce ma lui è irremovibile. A quel punto è messo di fronte a una scelta. Risponde a Gentile, seguendo quello che ancora oggi è un principio della nostra azienda: non possiamo censurare un nostro autore. Gentile abbandona La-terza. È una scelta molto faticosa, in quel momento, perché si opta per un grande intellettuale non compromesso con il regime, invece che per un intellettuale di establishment. Credo che lo spirito di fondo pluralista che ha animato la scelta di Giovanni sia rimasto: a distanza di pochi mesi abbiamo pubblicato un libro di Ingroia e Caselli e uno di Fiandaca e Lupo. Far convivere in catalogo idee diverse non vuol dire neutralità: si può perseguire una linea editoriale – quella che da Croce arriva a Salvemini ed Ernesto Rossi, fino a Tullio De Mauro e Stefano Rodotà – senza per questo chiudersi a posizioni anche radicalmente opposte...
Avrebbe potuto fare un mestiere diverso?
Non lo so. Ho un fratello più piccolo, Federico, che ha preso un’altra strada: fa il musicista e compositore jazz. Vive sul lago di Bracciano e ha una vita molto diversa dalla mia, ma sono molto contento delle sue scelte perché la musica è la forma sentimentale artistica per me più forte. Così come mi fa molto felice che una delle mie due figlie, quella che non lavora in casa editrice con me, stia finendo il Centro sperimentale di cinematografia e faccia l’attrice, perché incarna un’altra parte di me.
E lei invece?
La mia famiglia si è trasferita da Bari a Roma quando avevo circa 7 anni. Ho fatto il Tasso, un liceo impegnato politicamente. Era il 1970. Quando sono arrivato, il vecchio movimento studentesco conviveva con i nuovi gruppi: Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia. Io mi collocavo all’estrema destra della sinistra, quindi ero iscritto alla Fgci, la Federazione giovanile del Partito comunista. In più ero l’unico amendoliano, gli altri erano tutti ingraiani. Ingrao era molto più affascinante per un adolescente, nei suoi discorsi alludeva a migliori mondi possibili. Ero bollato come ‘socialdemocratico’ che a quei tempi tra noi era uno dei peggiori insulti che si potessero immaginare...
Chi c’era alla Fgci?
Trai i dirigenti Walter Veltroni, Goffredo Bettini e Carlo Leoni. E un gruppo di figli di papà, in cui ovviamente rientravo anche io, ma gli altri erano figli di papà politicamente parlando perché i loro padri erano i leader del Partito comunista: Pietro Reichlin, Guido Ingrao, Jolanda Bufalini, Fabrizio Barca, Laura Pecchioli, Franca Chiaromonte, Antonella Trentin. Per coincidenza erano anche tutte persone curiose e piene di qualità: discutevamo di politica ma la sera andavamo anche a ballare insieme... All’università non avevo intenzione di fare politica, anche se poi mi sono iscritto di nuovo alla Fgci per contrapposizione al Settantasette. Ero arrivato con Lama cacciato dalla Sapienza. Identifico ancora oggi il movimento con quell’episodio violento, con l’immagine del servizio d’ordine, dei cancelli chiusi dietro Piazzale Aldo Moro e gli autonomi barricati. Poi parlando con alcune persone, per esempio con il direttore di Radio3 Marino Sinibaldi, ho capito che il Settantasette non è stato solo violenza. Probabilmente è stato un errore anche da parte di Lama, il più riformista tra i comunisti, scegliere di fare un comizio all’università proprio in quel momento. Però fu buttato fuori a sassate: quei sassi mi riportarono alla Fgci, e per altri due anni feci attività politica. Dopo di che non mi sono mai più iscritto, né ho partecipato in nessun modo alla vita attiva dei partiti che si sono succeduti a sinistra. Ho sempre pensato che il mio lavoro fosse in un certo senso ‘politico’ e dunque non ne ho mai visto la necessità.
Lettere?
Ho scelto Economia e commercio perché da marxista in erba ero convinto che bisognasse studiare la struttura. Ho avuto la fortuna di studiare con un economista umanista come Federico Caffè. Era uno straordinario maestro, viveva per i suoi studenti, un bastian contrario assoluto. Una volta, insieme ad altri studenti iscritti alla Fgci, andai a chiedergli di sottoscrivere una petizione contro l’invasione russa in Afghanistan. Lui si rifiutò di firmare, perché l’analisi del documento era semplicistica. Ero all’estrema destra della sinistra, però tornavo a casa e dicevo a mio padre, che era un convinto liberale e un vero socialdemocratico: ‘Caro papà, non bisogna fare le riforme che dici tu, ma le riforme strutturali’. Dove per riforme strutturali intendevo quelle che porteranno al socialismo e al cambiamento della proprietà dei mezzi di produzione: a quei tempi, queste cose le poteva dire anche un amendoliano!
Suo padre non sarà stato contento della prospettiva d’essere espropriato della casa editrice.
Scuoteva la testa e sorrideva. Non ci rendevamo ben conto di quello che facevamo, leggevamo il mondo a senso unico. I figli di papà con i jeans sdruciti prendevano a calci le Mercedes davanti al Tasso, poi tornavano a casa ai Parioli dove di Mercedes i genitori magari ne avevano tre in garage. Facendo un esame scoprii che Piero Sraffa, economista grande amico di Gramsci, in un piccolo ma denso saggio, smontava il meccanismo della teoria classica della creazione del valore e contemporaneamente anche la teoria del plusvalore di Marx. Molto ingenuamente, in un attivo della Fgci, chiesi a Gerardo Chiaromonte come la mettevamo con la teoria di Sraffa. E lui mi liquidò così: ‘Ma cosa vuoi, son problemi filosofici...’. Per me era un problema decisivo, perché se non si riesce a dimostrare lo sfruttamento dei lavoratori crolla tutta la teoria di Marx. E rimane l’analisi laburista, cioè il conflitto per chi si prende la fetta grande dei guadagni. Ma non lo sfruttamento. Ancora oggi, nonostante tutto, c’è un retaggio marxista in questo paese. Io credo che ci sia un pregiudizio negativo nella sinistra contro gli imprenditori.
Ma no! Ammesso che il Pd secondo Matteo
sia di sinistra, certo non è ostile agli imprenditori...
Non alludevo a Renzi o Veltroni. Ma credo esista un pregiudizio negativo, che è la stessa faccia dell’incapacità della sinistra di valutare l’impresa nello specifico. Bisognerebbe distinguere chi crea valore a livello effettivo e chi no.
Sono almeno 40 anni che parliamo di riforme. “Fare le riforme” vuol dire ancora qualcosa?
Alcune cose fondamentali sono state fatte, pensiamo al divorzio. Il nodo delle riforme per me è un problema culturale. In assoluto il guaio maggiore è che a sinistra si è discusso pochissimo dei contenuti. Per esempio: cos’è la libertà? Un’idea di cui è stato lasciato il monopolio alla destra, ed è un vero peccato. Anni fa pubblicammo un saggio di Amartya Sen, La libertà individuale come impegno sociale, dove c’è un nucleo fondamentale su cui bisogna esercitarsi. Una buona democrazia, dice Sen, si vede dalla qualità del discorso pubblico, che in Italia non è certo di livello. Circostanza che ha effetti anche sull’attività politica e legislativa. In Italia la regola del discorso pubblico è che raramente si dice ciò che veramente si pensa. Si dice spesso ciò che consente di fare ciò che si vuole. Se io dichiaro ‘Te ne devi andare perché hai più di 70 anni’, creo meno attrito rispetto a una frase come ‘Te ne devi andare perché non sei capace’. Renzi ha usato l’arma generazionale per fare un’operazione squisitamente politica. Dopo di che uno può ritenere che questa operazione abbia contenuti di puro potere o pensare invece che sia davvero un’azione riformatrice perché le cose che dice Renzi introducono nella cultura di sinistra elementi liberali. Sono due visioni legittime. In generale, nel nostro paese, raramente un’affermazione generale è seguita da un atto specifico e individuale. Prendiamo il caso recente delle dichiarazioni del Papa sulla mafia: ne parlavo in questi giorni con mia moglie, giornalista a Rai News. Sarà interessante capire – diceva mia moglie – se il parroco di Oppido, il paese in Calabria dove la processione si è fermata per l’omaggio al boss, verrà in qualche modo sanzionato. Se devo pensare al discorso pubblico italiano, di cui la Chiesa è parte significativa, mi aspetto che nell’immediato non gli succeda nulla. Magari tra qualche tempo – per motivi apparentemente estranei alla processione – il parroco se ne andrà. In questo paese funziona così: Renzi dice ‘Enrico stai sereno’ a Letta e poi succede quello che succede. I politici, ma anche gli intellettuali, ripetono ossessivamente ‘Non è una questione personale’. Invece in Inghilterra o negli Usa è esattamente il contrario: è sempre una questione personale.
Dietro il decadimento del dibattito pubblico c’è una classe dirigente mediocre?
La mediocrità è prima di tutto questione di idee. Non si è discusso a sufficienza dei presupposti ideali della convivenza sociale. Io penso che lo stato sociale sia una grande conquista che ha consentito lo sviluppo economico e il riscatto di milioni di persone. Però il tema delle disuguaglianze è affrontato male. Ralph Dahrendorf – un nostro autore che ho avuto la fortuna di frequentare anche come amico – ha scritto che bisogna passare a un welfare che accompagni le disuguaglianze.
Con la crisi le disuguaglianze aumentano: forse non è il momento migliore per dirlo.
Un liberale progressista come Dahrendorf scrive che siamo diseguali e che la bellezza della vita sta nella diversità. Con due limiti, oltre i quali la diseguaglianza diventa intollerabile: i privilegi strutturali per cui il figlio dell’operaio può fare solo l’operaio e l’emarginazione dai diritti di cittadinanza. Salvo questi due paletti, le diseguaglianze vanno coltivate. In Italia invece per buona parte della sinistra la disuguaglianza è un tabù: non si può neanche pensare che due insegnanti di scuola o due magistrati possano essere pagati diversamente in base alla qualità del loro lavoro. Non dico in base al loro impegno, perché i lazzaroni dovrebbero semplicemente essere licenziati. Io credo che il welfare dell’omologazione sia una delle ragioni della crisi, la sinistra dice che la libertà d’insegnamento presuppone che i professori non siano verificabili.
Infatti: che vuol dire essere di sinistra? Ammesso che l’interrogativo abbia ancora senso...
Abbiamo recentemente pubblicato un libro, Pensare la sinistra, attorno al quale c’è stata una feroce discussione in casa editrice. Da una parte c’erano Pietro Reichlin dall’altra Marco Revelli, in mezzo Michele Salvati. Venivano fuori idee diversissime della sinistra. Reichlin sostiene che l’investimento più importante è quello in educazione e formazione. Revelli insiste invece sulla priorità della difesa dei diritti acquisiti. C’è una sinistra che rivendica più Stato contro il mercato e una che pensa al mercato come regolazione a favore dei consumatori. Ma a sinistra di questo si è discusso poco, mentre si spendevano fiumi di parole sulla contrapposizione tra Veltroni e D’Alema. E naturalmente su Silvio Berlusconi.
La finta opposizione!
Berlusconi andava combattuto proprio in nome del mercato: le sue televisioni – in genere le sue aziende – sono sempre state legate a filo triplo agli equilibri politici, non hanno mai affrontato una vera competizione sul libero mercato. Poi c’è anche il mai affrontato nodo del conflitto d’interessi e quello delle pendenze giudiziarie. Io sono orgoglioso di essere l’editore di Paolo Sylos Labini, Giovanni Sartori, Stefano Rodotà, Maurizio Viroli solo per citare alcuni intellettuali che hanno alzato la voce quando i perbenisti della sinistra invitavano a ‘non demonizzare Berlusconi’. Ma che vuol dire? Se uno ha i problemi di Berlusconi non si può far finta che non esistano perché una parte dei cittadini sembra non dare molto peso alla cosa. Norberto Bobbio, nel Dialogo intorno alla Repubblica con Maurizio Viroli ha scritto che Forza Italia era un ‘partito eversivo’ senza cultura di riferimento e pronto a ogni avventura. Anche lui demonizzatore?
In Italia peraltro abbiamo un’idea sbagliata del conflitto: ci sembra sempre che sia un male e non sappiamo gestirlo. Quando qualcuno dice ‘non sono d’accordo’ si pensa che ci sia sotto qualcos’altro: che quello con cui ti scontri ti abbia fregato la fidanzata o fatto chissà quale altro sgarbo.
Non sarà che siamo troppo consensuali?
Certo, ma questo è un problema della democrazia, che vive di conflitto. Le società procedono attraverso il conflitto. E mica c’è solo quello delle classi sociali rispetto i mezzi di produzione! C’è il conflitto politico, di potere, di reputazione...
No, reputazione no... in Italia non esiste più.
Esiste eccome, solo bisogna capire attraverso quali canali passa. Non è questione di reputazione per alcuni politici andare da Vespa? Non è reputazione per altri frequentare il Billionaire? Non è più la vecchia reputazione: decoro è una parola scomparsa. Molto più semplicemente e senza moralismo, la reputazione un tempo era legata alla coerenza. Oggi siamo tutti felici di smentirci. In televisione i politici dicono tutto il contrario di tutto, nessuno ci fa caso. Il Fatto è uno dei pochissimi giornali a pubblicare le frasi in contraddizione, ma sarebbe più forte svelare i voltafaccia in televisione. Pochi giorni fa, in un incontro promosso in Puglia dai Presidi del libro, Remo Bodei faceva notare che si è deciso di abolire ogni gerarchia di valori. Non si può più dire “questo romanzo è migliore di un altro”, al massimo “questo romanzo mi piace”, come i “like” sui social network.
Il mercato editoriale attraversa una crisi ormai cronica.
La forma libro è meno centrale di qualche decennio fa. I testi si possono leggere anche su altri supporti e questo ne cambia anche i contenuti. Però anche Internet vive nella storia, è destinato a trasformarsi. Come scrive nei nostri libri Gino Roncaglia, non è affatto detto che il web tra qualche anno non cambi, non evolva nel senso della complessità. Io penso che un editore non viva per la carta, ma per le idee. E quindi bisogna capire come le idee possano essere veicolate diversamente. Oggi siamo il primo editore che organizza importanti manifestazioni pubbliche come i Festival dell’Economia e del Diritto o le Lezioni di Storia. Un altro modo di fare circolare le idee.
Anche redditizio, no?
Certo, può esserlo come i libri.
È cambiata l’allure del libro. A metà degli anni Novanta i ragazzi andavano in giro con un libro Adelphi sotto il braccio perché aiutava a rimorchiare le ragazze.
Il miglior complimento che si possa fare a un editore! Bisogna riflettere su alcune cose. Se entro in un negozio, pago con il bancomat e dopo tre secondi la transazione non è eseguita la cassiera comincia a scusarsi convulsamente. Questo accade perché abbiamo un tempo di attenzione bassissimo. Il libro è il contrario di questo: è concentrazione, attenzione, difficoltà. La vita che facciamo e il pensiero in cui siamo immersi – possiamo sintetizzarlo in slogan stupidi come ‘con la cultura non si mangia’ – contraddicono la natura del libro. Se lo guardiamo da questo punto di vista, il fatto che ci siano ancora 5 milioni di italiani che leggono almeno un libro al mese è straordinario. Appena cinquant’anni fa solo il 17 per cento degli italiani leggeva libri. Siamo arrivati a toccare il 46 per cento, anche se dopo il 1996 questa curva cresce poco. Però non dimentichiamoci da dove veniamo.