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 2014  luglio 11 Venerdì calendario

E ALL’IMPROVVISO SAN VITTORE CI FA LA GRAZIA

MILANO. È meglio non dirlo troppo in giro, altrimenti i fan dei supplizi si svegliano, ma nelle carceri italiane è incominciata una specie di rivoluzione. È più difficile entrare e un po’ più facile uscire, e di giorno le celle rimangono aperte. In un anno i detenuti sono calati da 66 a 59 mila, e anche se la capienza è 50 mila, è l’inversione di un processo. Le ragioni sono molte: la condanna dell’Unione Europea a risarcire sei persone (Torregiani e altri), detenute in condizioni disumane, la certezza di altri ricorsi, l’abolizione della Bossi-Fini e la bocciatura della Fini-Giovanardi che inondavano le galere, i richiami di Napolitano, le raccomandazioni della Commissione Palma sulla detenzione, e un paio di leggi che incentivano le misure alternative. Accade ovunque, ma da qualche parte accade di più. A San Vittore, il carcere di Milano cantato da Giorgio Strehler e Gaber, «l’ultimo Panoptikon italiano», si è passati dai 1.600 detenuti del settembre 2012 (ma nel 1993 erano 2.400) ai 900 attuali.
Citofono al 2 di piazza Filangieri in un giorno caldissimo. Fuori, i milanesi respirano adagio, ma dentro tutto sembra in ombra. C’è un grande via vai: avvocati, parenti, suore, dottori. «Dall’esterno sembra statico, invece brulica. È una città nascosta», mi spiega l’ispettore Gianni Mazzarelli, facendomi strada verso l’ufficio di Gloria Manzelli, direttrice da dieci anni, prima donna dal 1879. Alla destra della scrivania è incorniciato «il prospetto planimetrico eseguito dal detenuto MR offerto al direttore superiore Comm. Dott. Gino Borcioli, Milano Ferragosto 1950», un disegno strabiliante di 4 metri x 4 di fogli tenuti insieme col nastro dell’infermeria, in cui ogni dettaglio è visibile: i sei raggi, la Rotonda centrale dove non stanno i guardiani, ma l’altare su cui, ancora oggi, si tiene messa, le celle, l’infermeria, le docce, la camera mortuaria. «L’autore è anonimo» mi dice Gloria Manzelli, «ma De Sica lo riprese ne Il generale Della Rovere». È l’immagine di un’istituzione che si concepisce eterna e immutabile, e obbliga a una domanda: a che cosa serve?
«Il carcere è il modo di rovinare una persona» risponde di getto la direttrice. Poi si corregge, ma la frase le è uscita. È molto alta, seria più che severa, e senza tempo come un’istituzione. Per legge, come ogni direttore, abita all’interno dell’istituto. «Da un lato il carcere deve rieducare, dall’altro detenere le persone pericolose. Ma sono tutte socialmente pericolose?». Interviene l’ispettore: «In vent’anni, di delinquenti veri ne avrò conosciuti dieci». La direttrice continua: «Si rende conto che arrivano qui per aver rubato cibo?». Kosta, romeno, aveva forzato un parchimetro, Ahmed, portaegiziano, aveva preso della cioccolata e Lucia, una ragazzina rom, l’hanno arrestata per un salame. Entra un’agente donna con un foglio da firmare: «È per la zingarella incinta». «Sta partorendo?» «No, ma dev’essere visitata».
Riprende Manzelli: «Adesso le cose vanno meglio. Nel 2012 abbiamo avuto settemila entrate, ma liberi dalla Bossi-Fini ci sono mille ingressi in meno all’anno. Però aumentano giovanissimi e anziani. Fuori l’assistenza viene tagliata, e così il carcere diventa il contenitore di disagi che altrove non trovano risposte. Anche se i tagli ci sono anche da noi». L’ammortizzatore sociale degli ultimi. Annuisce. «C’è gente che viene curata solo qui. Mi ricordo un signore malato di cancro. I parenti non lo volevano. È morto qui, in infermeria. Poi ci sono i senza tetto che vanno rimessi in sesto se no gli altri li rifiutano». A ogni nuovo arrivato si fanno gli esami, sangue, urine, agli stranieri l’Rx toracica. Il servizio sanitario funziona 24 ore. «La sensazione di noi agenti è che gli ingressi aumentino quando fa molto freddo o in prossimità delle festività», dice l’ispettore che non sopporta la parola «secondini» perché «erano quelli che contavano i secondi sulle navi-galere».
Quindi il carcere serve perché è il bidone dei disperati. La direttrice reagisce: «No, una prospettiva c’è, ed è il lavoro. Se si impara un lavoro, la recidiva è zero». Anche in prigione, come fuori, il problema è il lavoro. «E non è beneficenza», spiega, «chi impiega detenuti lo fa a scopo di lucro. Ottiene agevolazioni fiscali e prodotti di eccellenza». Elenca panettoni a Padova, cioccolati a Busto Arsizio, specchi a Monza, e poi miele, gioielli, agricoltura. A San Vittore c’è una sartoria dove negli anni sono passate in duecento e in duecento hanno trovato lavoro; hanno anche aperto un negozio e lanciato una linea, i Gatti galeotti, realizzato i costumi per la Scala, un abito per Britney Spears (ma chissà se l’ha mai messo) e le toghe per i magistrati. «Teniamo corsi di cucina, e d’estate organizziamo aperitivi», dice la direttrice salutandomi, prima che l’ispettore mi porti nei raggi, «per la Prima della Scala abbiamo servito risotto giallo nella Rotonda. Squisito». Dalla Rotonda, oltre le sbarre, si vedono i sei raggi. L’ispettore mi spiega i criteri di smistamento, per tipologia: i tossici, i giovani, chi ha problemi psicologici, i definitivi, i lavoranti, «i protetti, a cui bisogna impedire sia fatto del male, un carcere nel carcere», le donne. Ci aprono un cancello. Le chiavi sono grandi. Le celle minuscole. Gli uomini parlano tra loro, si annoiano, osservano, salutano. Canottiere, infradito e tatuaggi. Da qualche parte nella sezione femminile cantano al karaoke Mamma Maria dei Ricchi e poveri.
Nel terzo raggio, per un attimo mi ritrovo con un detenuto sui sessant’anni, alto, con un occhio sbilenco e gli avambracci anneriti da tatuaggi che sono colate informi di inchiostro nero. Si accorge che li sto guardando. «È roba da galera schifosa». Mi chiede chi sono, poi si presenta: «Iannetta Antonio». Con l’ispettore andiamo nel laboratorio di legatoria che Iannetta ha fondato con altri, e lì inizia a raccontare: «Ho trascorso oltre la metà della mia vita in carcere, ho conosciuto i ballatoi e le carceri speciali. La prima volta è stata per la politica: fuori dalla stanza quando sono nato, invece del fiocco azzurro, c’era la bandiera rossa; ma poi sono diventato un bel rapinatore, ho avuto tanti soldi, quattro figli da quattro donne diverse: un bel pezzo di merda. La mia è la vita di uno che da una biografia lacerata è riuscito a rinascere e ad accarezzare la faccia di mia mamma. Alla fine sono diventato credente. Cristo è stato in carcere ed è morto in mezzo ai ladroni». Mi racconta della mala, di Turatello e Vallanzasca, i brigatisti, la grande fuga del 1980, com’era Milano, e non si fermerebbe mai. Gli chiedo com’è cambiata in quarant’anni la prigione. Ci pensa, poi dice: «Il carcere è migliorato. Sono peggiorati i detenuti». Parla di valori, ma a me sembra disperazione: oggi in pochi commettono reati per migliorarsi la vita. Con le celle aperte si sta meglio? Sorride: «Certo, però tanti non vogliono più lavorare. Se la prendono con i piccoli e fanno le bande». L’ispettore ammette che sì, le richieste sono calate: «Non siamo arrivati del tutto preparati a questa grandissima rivoluzione».
È una rivoluzione, comunque. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone, che sento giorni dopo, conferma: «Una stagione di riforme così non si vedeva da anni. Ma le fondamenta purtroppo non sono state messe in discussione. È vero che l’apertura delle celle può dare nuovi problemi, ma è una scommessa da affrontare. I detenuti sono infantilizzati: lo spesino, lo scopino, il lavoretto... Trattarli da adulti è l’unica cosa civile da fare».
Andando verso l’uscita, ripassiamo dal raggio dei giovani. Molti arrivano dal Beccaria, il carcere minorile. Nonostante i tatuaggi e gli occhi, sono quasi bambini. Sono quelli che disturbavano, quelli che alle elementari andavano dietro la lavagna e alle medie venivano mandati fuori. Per tutta la vita, la loro pena è stata diventare invisibili. Anche il carcere fa sparire. Sul muro qualcuno ha scritto a mano una poesia: «È notte è notte / È sempre notte / E già si sogna e si sa».
Giacomo Papi, Venerdì 11/7/2014