Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 11 Venerdì calendario

HOMELESS IN AMERICA. DIETRO C’È IL SESSO

San Francisco. Sono invisibili, ma da domani lo saranno un po’ meno. Ragazzi, minorenni, scappati di casa, che si tengono ben stretti il loro sacchetto di viveri, lo zainetto, le scarpe. «Attento a dormire nel parco. Le scarpe, te le rubano», è il primo consiglio che ricevono. I nuovi homeless, senza casa.
Sono andato a vederli, stanno all’ingresso del Golden Gate Park, alle ultime propaggini della famosa Haight Ashbury degli anni Sessanta; e non danno fastidio a nessuno. Erano tanti.
Secondo una ricerca destinata a fare rumore, sono i nuovi poveri americani. Minorenni, o comunque adolescenti, gay, lesbiche, bisessuali e transessuali si avviano a diventare circa il 40 per cento di tutti i «senza casa» americani, ovvero lo scandalo della miseria schiaffata sotto gli occhi dei ricchi nelle metropoli del Paese più ricco del mondo. Oppure, se volete vederla in un’altra maniera: il simbolo pulsante del fallimento del sistema capitalistico americano. Oppure ancora: la visione quotidiana della nemesi, della colpa, della vanità, del pulvis es et in pulverem reverteris e della mobilità sociale, che non fa molto parlare di sé quando va all’insù, ma scandalizza quando va velocemente verso il precipizio. I mendicanti, insomma. Le bag ladies. I drogati. I neri. I malati. Gli zombi. I veterani del Vietnam, cui adesso si sono sommati quelli dell’Iraq. Qualche volta anche le ondate di impiegati licenziati da qualche ristrutturazione bancaria, ma questi sono temporanei.
Appena due mesi fa, ha provocato uno shock nell’opinione pubblica un’inchiesta del New York Times. Era il dettagliato, lungo e commovente ritratto realistico di una bambina di nome Dasani, originaria del Bangladesh. Dasani, si è scoperto, è uno dei 23.000 ragazzi ospitati ogni notte nelle decine di shelters di New York, dove gli adolescenti sono quasi in ugual numero degli adulti. Totale degli esseri umani che dormono su una brandina nelle enormi camerate allestite da una miriade di organizzazioni private o semi pubbliche: 57.000 esseri umani, invisibili.
I ragazzi e le ragazze – gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, uniti inconsapevolmente attraverso la famosa sigla Lgbt, che significa appunto Lesbian Gay Bisexual Transgender, da poco diventata ufficiale e identitaria come avrebbe potuto essere una volta la categoria dei metalmeccanici – stavano sdraiati nel parco e si spingevano verso Stanyan Road. Chiedevano, senza iattanza alcuna, un po’ di soldi.
Passa un signore distinto e una ragazza si ferma a parlare. Lui è paterno, lei è brusca. La conversazione finisce quando lui si informa: «Hai una casa? Hai un lavoro?». Lei risponde: «Qualche volta, un po’ qui un po’ là». Lui dice: «Che Dio ti benedica». Lei risponde brusca: «Non credo in Dio».
All’ingresso del parco c’è una toilette pubblica; magnifica, una copia di quelle strutture art déco fatta costruire a Parigi. È un grande chiosco di metallo verniciato in verde, con una porta ricurva scorrevole e un display luminoso che dice «vacant» o «occupied». C’è un coppia in fila davanti a me. Lei è veramente piccola, avrà quindici anni, ed è malmessa. Lui è un adulto, avrà trent’anni, taciturno.
- Siamo prima noi, ok?
- Ok.
- A proposito, a Wholefood (il supermercato di prodotti organici dall’altra parte della strada) ti fanno entrare nella toilette o devi chiedere il pin?
- No, entri senza niente.
Sgattaiola il precedente. Entrano i due. Aspettiamo tutti pazientemente. Dopo venticinque minuti, abbandono il mio privilegio in coda e me ne vado. Senza sapere se stavano scopando o se si stavano bucando.
Gli homeless a San Francisco sono stabili, 7.500 in una città di 850.000 abitanti. I vecchi homeless – praticamente vecchi come la città – vivono in due isolati di Tenderloin, nel vero centro della capitale, in mezzo a banche, grandi alberghi, il municipio, i magnifici teatri dell’opera, del jazz e del balletto. Zombi sdentati che bivaccano, temporanei proprietari di un carrello della spesa che spingono di qua e di là. A mezzogiorno c’è una lunga fila per la minestra in Ellis road. Questi sono la vecchia guardia, circa 50.000. Non crescono e non diminuiscono, da decenni. Poi ci sono i 2.500 di Golden Gate Park, che invece sono nuovi arrivati, Lgbt, giovani e ancora in forze.
La notizia sta nel fatto che per la prima volta, e probabilmente ancora sommariamente, è stata svolta un’inchiesta sugli homeless giovani. L’ha condotta il Center for American Progress, grosso think tank liberal fondato e diretto da John Podesta, che fu un ascoltato consigliere di Bill Clinton ed ora è un consigliere, ancora più ascoltato, di Obama alla Casa Bianca. Il Venerdì ha potuto vedere i dati appena raccolti; come spesso succede in America, sono inaspettati e biblicamente enormi. I senza casa minorenni sono circa un milione e settecentomila, poi ce ne sono una cifra tra i 750mila e i due milioni tra i 18 e i 24 anni. Questo significa che si raggiunge un totale di una massa tra i 2,4 milioni e i 3,7 milioni tra minorenni e giovani adulti, che ogni anno sono senza un tetto, per non parlare di una famiglia. All’interno di questa massa, la ricerca, svolta su tutto il territorio nazionale, per la prima volta ha provato a stimare i giovani Lgbt, e sono venute fuori percentuali impressionanti, che variano dal 25 per cento al 45 per cento del totale, tra piccole città e grandi metropoli, con numeri più alti del previsto di giovani neri e ispanici. I lettori sono autorizzati ad alzare scetticamente il sopracciglio. Possibile? Così tanti? Possibile; così come è possibile che negli Stati Uniti ci siano tre milioni di persone nel circuito carcerario o che prima dell’Obamacare, ci fossero quaranta milioni di cittadini senza assistenza sanitaria. Anche in Europa è cresciuto, e di molto, il fenomeno dei giovani senza casa – una ricerca della Fondazione Rodolfo DeBenedetti, appena resa nota, li stima in cinquantamila e considera la cifra pericolosamente grande, dovuta alla crisi economica e alle rotture famigliari. Cinquantamila sembrano tantissimi, troppi. Ma, di nuovo per far venire le vertigini al lettore, quello che succede ai ragazzi americani è molto più drammatico, se, per esempio, l’intera cifra europea è raggiunta dalla sola città di New York. I luoghi sono strade, gradini delle chiese, parchi, fogne, edifici abbandonati, dormitori, rifugi. Le cifre del disagio, della povertà giovanile sembrano essere dunque in rialzo ovunque, con una differenza. Le percentuali americane di ragazzi omosessuali e transessuali non dipendono dalla povertà, quanto dai nuovi diritti dei gay. Un paradosso culturale, che può diventare esplosivo.
Me lo spiega Tim Sweeney, che lavora con il Center for American Progress ed è una leggenda della comunità gay, per il suo attivismo, la sua generosità, il suo carisma. (Oltre che per le sue eccezionali capacità di raccogliere fondi e motivazioni). Queste decine o centinaia di migliaia di ragazzi che dormono per strada sembra che li conosca uno ad uno. Erano lui stesso, che figlio di una famiglia cattolica del Montana fece il suo coming out e si trasferì a San Francisco all’inizio degli anni Settanta, dove cominciò la sua attività sociale. Erano le migliaia di ragazzi che morirono di Aids durante l’epidemia, con i loro padri che si rifiutavano di vederli, sbattevano giù il telefono alla notizia e dicevano bruscamente: «Non è più mio figlio, lo rivedrò al suo funerale».
I dati non lo hanno stupito e una spiegazione esiste. Gli Lgbt hanno ottenuto negli ultimi anni conquiste pubbliche, culminate nella possibilità del matrimonio gay. Uno Stato dopo l’altro permette ai gay di sposarsi. La Corte Suprema dà loro ragione. La Casa Bianca ha appena sancito che i diritti di pensione e i benefit lavorativi valgano anche per le coppie gay. I giornali, la televisione parlano di loro, in diverse parti d’America si sono formate zone gay friendly. Il presidente appoggia i gay ed è convinto che in amore tutti debbano avere gli stessi diritti. Tutto questo è molto bello, mi dice Tim Sweeney, ma ha anche fatto sì che sia fortemente calata l’età in cui il ragazzo o la ragazza comunicano ai genitori le proprie scelte sessuali. Se un tempo tutto ciò, in genere, avveniva quando il ragazzo andava al college, oggi avviene ai tempi del ginnasio; all’epoca dei primi flirt e delle passioni. La famiglia può reagire bene all’annuncio, ma molto più facilmente, reagisce male. «Succede» spiega Tim «che puoi essere tollerato, o scacciato. Immagina che siamo nel Kansas, o in Alabama, in una cittadina. E allora vedrai tuo padre che ti agita la Bibbia sotto il naso, o che ti porta da un medico per curarti. Succede che ti cacci di casa. Succede che a scuola sia oggetto di bullismo, e trovi solo, quando ti va bene, un professore che sta dalla tua parte. Che la chiesa non ti aiuti. E allora il ragazzo parte, con duecento dollari che gli ha dato una zia o il biglietto dell’autobus che gli ha dato l’assistente sociale e va in una città, dove ci sono le sfilate del gay pride, dove potrà trovare lavoro. Per scoprire che i duecento dollari finiscono in pochi giorni, che non sai dove andare a dormire, dove lavarti, che la polizia ti cerca per riportarti a casa, che al McDonald’s non ti prendono. Che hai perso la scuola, che ti ammali, che ti chiedono sesso in cambio di denaro o ospitalità, che fai fatica a trovare qualcuno che ti dia una mano, che sei diventato un homeless e il mondo pensa di te che sei perso, che non c’è più niente da fare».
Abbiamo a che fare, conclude Tim Sweeney «con una gioventù sensibile, coraggiosa, leale, che quasi si stupisce che non le vengano garantiti i diritti che avevano pensato fossero per tutti». E i compiti sono enormi: «Raccogliere dati, farli conoscere, raccontare queste storie». E poi le richieste, a chi ha i soldi per aiutare e il potere di fare leggi: «Ostelli dormitorio, assistenza sanitaria, lavoro, scuola». E poi ancora, avvicinare le famiglie e convincerle che i loro figli non commettono peccato e che non costituiscono la loro vergogna. «Un padre che passeggia per strada con suo figlio gay è la migliore delle soluzioni». Altrimenti, succederà quello che nessuno vuole: e la libertà sessuale diventerà un privilegio dei ricchi.
Enrico Deaglio, Venerdì 11/7/2014