Antonio Gnoli, la Repubblica 13/7/2014, 13 luglio 2014
Franco Rella (Rovereto, 1944) è uno scrittore, filosofo, professore universitario di estetica allo Iuav di Venezia, curatore di numerose mostre e cataloghi e direttore di collane per diverse case editrici Ecco un uomo che sembra non aver mai chiesto nulla alla vita
Franco Rella (Rovereto, 1944) è uno scrittore, filosofo, professore universitario di estetica allo Iuav di Venezia, curatore di numerose mostre e cataloghi e direttore di collane per diverse case editrici Ecco un uomo che sembra non aver mai chiesto nulla alla vita. Del resto, dice di non aspettarsi nulla di speciale. Non ha ansie. Né desideri nascosti. Non è vittima del proprio ego. In un certo senso, nell’odierna vita culturale, è un uomo invisibile quello che incontro nel retro della hall di un albergo di Milano. Ho appena finito di leggere il suo libro più recente Forme del sapere ( edito da Bompiani). Bello, intenso, irregolare come i precedenti. Qualche titolo da tenere sott’occhio: Il silenzio e le parole, Il mito dell’altro, L’enigma della bellezza . Mi pare che la linea prediletta del suo saggismo sia quella che da Montaigne arriva a Valèry. In mezzo c’è di tutto, grandi filosofi: Platone, Hegel, Nietzsche, Bataille; grandi scrittori: Mann, Kafka, Musil. Per essere un uomo “senza qualità” Franco Rella è un caso letterario. Lui non è il temporale, la tempesta, il vento che si alza. È il barometro che misura tutto questo. Lo strumento che registra i sussulti della Terra: «Potrei al massimo registrare il vapore acqueo, l’umidità che circola e si effonde nell’atmosfera. Niente di eclatante. Come del resto non eclatante è stata la mia vita», dice con sommessa ironia oratoria mentre si scuote di dosso il lieve torpore che lo avvolge. È uno dei rari casi di scrittore che rivendica la propria normalità. «La mia vita è stata segnata da pochissimi scarti. Tutto si è svolto all’insegna del prevedibile. Vivo da sempre nel posto in cui sono nato, Rovereto. Ho la stessa moglie da cinquant’anni. Viaggio poco e non mi illudo di poter cambiare nel tempo che mi resta ancora da vivere». Non sente la noia del rettilineo? «No, del resto le troppe curve mi darebbero la nausea. Capisco di essere in un certo senso insignificante». E dall’insignificante trae la sua forza? «È una domanda piena di trappole. Diciamo che l’“insignificanza” è una sorta di grado zero da cui la mente può partire al galoppo». È il motivo per cui i suoi libri sono così diversi da lei? «Mi offende e insieme mi lusinga. Le confesso che i miei libri sono per lo più considerati inclassificabili. C’è stato un tempo in cui qualcuno mi considerava un talento della scrittura». Scrittura: cos’è la scrittura? «Potrei affliggerla con un vasto repertorio di definizioni. Per Kafka è la terribile voce dell’intimo. Penso sia un atto egoistico, un gesto che separa chi scrive dagli altri ». Non si scrive per qualcuno? «Ma quel qualcuno non ha identità. Ci dà, a volte, la forza per continuare. Ma è un’illusione. La vera scrittura è un inferno privatissimo. Ogni volta un incontro con la morte». Non le sembra eccessivo? «No, dal momento che la morte ci riguarda. Ci interpella. Da un certo momento in poi tra la forma e la vita si è stabilito un rapporto oscuro e malato. Qualcosa che Franz Kafka e Thomas Mann hanno personificato benissimo nei loro romanzi. Bisogna avere la sensibilità di leggerli in un certo modo». E questa sensibilità come l’ha sviluppata? «Certe volte penso che devo tutto a mia nonna. Fu una magnifica narratrice di storie. E da lì il salto alla lettura fu breve. Scoprii improvvisamente la virtù del silenzio. Vivevamo in una casa particolarmente rumorosa. Con i primi libri imparai a isolarmi». Quali? «Salgari, London, Tolstoj, Maupassant, i primi romanzi americani. Furono le mie emozioni di adolescente: tra l’esotico e l’erotico. Ricordo il piccolo armadio nel quale mio padre li aveva riposti. Avvertivo qualcosa di sacro». Suo padre cosa faceva? «Era un artigiano e la mamma un’operaia. Donna acutissima che aveva messo al mondo quattro figli. Vivevamo dello stretto necessario. Si era nel dopoguerra. La cosa che mi faceva star male era l’incontro con uno zio poverissimo. Viveva nella Val d’Arsa. Già il nome apriva al tormento». È strano. «Cosa è strano?». Di solito si ricorda lo zio ricco. «Ah! Avercene avuti. Lo zio era un uomo sprovvisto di tutto. Senza finestre. Murato. Chiuso in una indicibile amarezza, con lo sguardo stanco e vuoto. Povero come non si può immaginare». Ne ha avuto paura? «Paura no. E neppure inquietudine. Sentivo come una specie di dolore fisico. Che mi faceva cercare rifugio nei miei pensieri. Solo così allontanavo il disagio». E i suoi? «I miei cercavano di darsi da fare. Era la famigliola che progredisce. Che scavalla la sfortuna, supera le avversità. Modello italiano: lavoro e risparmio. Gli sono riconoscente, tra l’altro perché non hanno mai cercato di interferire nelle mie scelte». Che andavano verso dove? «Feci i miei studi liceali e poi l’università, laureandomi con un giovane Gillo Dorfles». Ora più che centenario, come lo ricorda? «Intanto è meraviglioso che sia arrivato a un’età da narrazione biblica. Che dire? Un vero gentiluomo. Ma non concordavamo su niente. Intellettualmente elegante. Ma in fondo non ho appreso nulla da lui. In compenso mi ha lasciato una libertà totale». Cos’è un maestro? «Non ne ho avuti. Conoscenze, frequentazioni. Ma nessuno che abbia indicato la strada. Quando avevo l’impressione di aver trovato una figura interessante, immediatamente subentrava la delusione. Ho sempre letto e studiato per conto mio. All’università non ho frequentato nessuna lezione. Gli accademici mi annoiavano. E tra me, dicevo: spero un giorno di non scrivere come loro». Alla fine però ha insegnato all’università. «Fu casuale. Nasceva a Venezia lo Iuav — un tempo è stata forse la migliore facoltà di architettura di Europa — e Cacciari fece leggere delle mie cose a Manfredo Tafuri che se ne invaghì. Ho insegnato filosofia traendo conforto dal confronto con architetti e artisti». Perché ha lasciato prima del tempo? «Perché anche le più belle cose sono destinate a corrompersi. Presi la decisione cinque anni fa. Andar via dallo Iuav ha fatto tirare un sospiro di sollievo tra i colleghi. Sia io che Giorgio Agamben, per farle un nome di qualche importanza, non abbiamo avuto neppure una riga di congedo». Si definiva inclassificabile. «Ma sì, cosa c’è di tipico nella mia storia intellettuale? Ho una posizione indefinita. Non faccio scuola e non appartengo a scuole. Cominciai a leggere Freud al ginnasio. E fu un impatto notevole. Lo incrociai con Proust e la sua Recherche . Nel 1972 l’editore Bertani mi offrì di dirigere una collana. Videro la luce i primi libri di Bataille, Derrida, Deleuze. Mi pareva un modo per rompere con un certo conformismo culturale di sinistra». «Non le combatto. Sono troppo forti. Le evito, me ne tengo alla larga. Seguo l’istinto che è poi anche il vero piacere. E aspetto che tramontino. Allora, forse, diventano interessanti». Ma ora che non insegna più all’università cosa fa? «Leggo e scrivo. Leggo di tutto. Faccio fatica a distinguere, per esempio, tra una grande opera filosofica — come il Simposio di Platone o La fenomenologia dello spirito di Hegel — da una grande opera letteraria». «Un senso di ossessione. Ritrovare il timbro della voce di Platone in Dante o nel Moby Dick e scoprire che la loro ossessione è forzare i limiti del linguaggio». Non tutti i grandi autori sono ossessionati dalla lingua. «È vero. Conrad in Cuore di tenebra la vive. Molto meno in altri suoi romanzi. Flaubert cercò tutta la vita di controllare questa ossessione della lingua. Ma di notte si trasformava. Scriveva lettere fluviali in cui lui stesso diventava marea di parole. Poi, durante il giorno, si ricomponeva. Nei suoi romanzi cercava di controllare l’ossessione. Faceva barriera alla merda che ci invade». Era ossessionato dal luogo comune. «La bêtise lo teneva sveglio». Ma cos’è l’ossessione infine? «È il tentativo di giocare l’impossibile nei mondi dei possibili. Quando Kafka nell’incipit della Metamorfosi trasforma Gregor Samsa in un insetto, sconvolge il possibile e si apre all’incognito». Non tutte le ossessioni sono eguali. «Bisogna scoprire la propria. Alla fine penso che le ossessioni siano di due tipi: quelle che aprono le ferite al mondo e quelle in cui il mondo le apre a noi». E lei con quale si riconosce? «Per sensibilità mi sento molto vicino a quei filosofi, poeti, scrittori, artisti che sono passati attraverso la distruzione del luogo comune». Chi, per fare qualche nome? «Penso all’arte delle “sfigurazioni” che nel Novecento ha interessato Giacometti, Bacon, Fontana; o allo sgretolamento del linguaggio in Artaud e Beckett; ma anche a Pasolini». Pasolini? «Mi sorprese enormemente Petrolio, così distante da tutto quello che aveva scritto. È un romanzo contro il potere, anche contro il potere della forma letteraria. Di qui il suo essere informe. Come un’enorme macchia di petrolio che dilata e sfrangia sulla superficie del mare». Questa sua attenzione alla lingua violentata cos’è: piacere o conoscenza? «Non è compiacimento, né estetismo. Forse un esilio dalla bellezza». Per citare un suo libro: la bellezza è davvero un enigma? «Karamazov non sa più cos’è e scopre che contiene tutto: è la via che conduce alla Madonna e a Sodoma. Simone Weil, consapevole che la bellezza dopo duemila anni ha perso l’armonia, dice che è squarciamento del reale». Possibile che non si possa più trovare una quiete? «È il frutto avvelenato della modernità. Siamo stati scacciati dal paradiso della quiete. Viviamo in permanente stato di effrazione ». E come ci si sente, voglio dire personalmente? «A volte mi sento un sopravvissuto. Non sono su facebook, non twitto. Quando mi chiedono di pubblicare “on line” sento in me una resistenza, come se la carta sia ancora un’esperienza elettiva. C’è qualcosa che mi impedisce di essere in sintonia con il mio tempo». Lei che fu folgorato da Freud e tra i primi a importare Lacan in Italia ha mai pensato alla psicoanalisi come rimedio? «Sono stato tentato. Ricordo che contattai prima Elvio Fachinelli e poi Cesare Musatti, alla fine capii che la psicoanalisi non ce l’avrebbe fatta a curarmi. E me ne tenni alla larga». Cosa la convinse ad abbandonare? «Intanto Freud e Lacan erano per me soprattutto dei filosofi più che dei curatori di anime. Lo stesso Musatti, incontrandomi, mi dissuase. Mi disse: ho l’impressione che le nostre sedute di un’ora finirebbero con te che mi spieghi perché hai fatto tre ore di treno per raggiungermi. Fu convincente. Divenni un paziente mancato». Ne restò deluso? «Anzi, mi convinsi che le cose che avrei potuto capire dell’essere umano avrei potuto tirarle fuori dalle mie esperienze letterarie ». C’è un rapporto tra la malattia reale e quella letteraria? «Penso di sì. Una delle cose cui ho tenuto fede è l’idea che il mondo è un insieme di ombre che non si possono cancellare. È ciò che un teologo chiamerebbe “il lato sinistro di Dio”. Nel Maestro e Margherita Mefistofele dice all’Angelo: “Vorresti togliere le ombre dal mondo, ma così lo distruggeresti”». È il dolore che non si elimina? «È una componente con la quale dobbiamo fare i conti. Ritengo che solo un pensiero capace di incorporare pathos possa pensare un mondo siffatto». E l’arte che posto vi occupa? «Hegel pensò alla morte dell’arte, si riferiva a quella classica, come ripudio della bellezza. Hermann Broch disse che la bellezza copre il senso dell’opera. Come vede la rinuncia alla bellezza è un tratto che corre dalla metà dell’Ottocento e arriva agli anni Ottanta del Novecento. L’arte vera è inconciliata e inconciliabile». E poi che accade? «L’arte diventa gioco insensato. In molti artisti di questi ultimi tre decenni si nota l’orrore del senso e la perdita della storia. Siamo già oltre i fiori sulla tomba». Sembrano le parole di un esodato del pensiero. «Più che esodo, esilio. Scrivere è di fatto esiliarsi da tutto. È il costo della verità che si cerca».