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 2014  luglio 13 Domenica calendario

DARIO PAPPALARDO

LROMA
AFACTORYc onsumava
il suo atto finale e lei era lì, testimone in un angolo con la macchina fotografica in mano. Jeannette Montgomery Barron sedeva al tavolo di quelle lunghe, ultime cene con Andy Warhol e la sua “famiglia”. La Pop Art era ormai diventata un’industria con tanto di fatturato. E di quella scena artistica anni Ottanta lei diventò, poco più che ventenne, la ritrattista “ufficiale”, come dimostra ora il libro My Years in the 1-980s — New York Art Scene ( in uscita in contemporanea con la mostra alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, aperta fino al 28 settembre). La prima volta, in realtà, Andy Warhol le concesse a stento cinque minuti. Altro che quarto d’ora di celebrità. «Ero lì, in una sorta di sala d’attesa: caos, roba e foto sparse ovunque, e lui arrivò. Il tempo di scattare e mi mise alla porta. Il risultato non fu un granché» racconta
lei. Ma alla Factory sarebbe tornata altre volte. «Prima a quella in Union Square e poi sulla East 33rd Street, che aveva ormai assunto l’aspetto di una serie di uffici. Ognuno con scrivania e telefono». Quello di Montgomery Barron è un diario per immagini delle mille luci di New York. Una carrellata di star e di sconosciuti che non sarebbero stati più tali. Kathryn Bigelow, trent’anni prima di diventare l’unica regista donna a vincere l’Oscar, è una ragazza sicura di sé che fuma una sigaretta con la testa comodamente adagiata su un cuscino. Willem Dafoe è solo un attore di belle speranze e senza maglietta. Francesco Clemente e Cindy Sherman sembrano appena usciti dal liceo. E poi ci sono i party: le tavolate dove trovi Warhol e Keith Haring; Bianca Jagger e Boy George; Julian Schnabel, già allora in vestaglia, e Jean-Michel Basquiat. William S. Burroughs siede in poltrona con sguardo da sfinge. In quei bianco e nero c’è anche un’aria di decadenza, da fine dell’impero pop. «Sì, Warhol in qualche modo celebrava la sua decadenza», precisa Montgomery Barron, «e per me non c’era niente di più interessante che guardare quella decadenza da lontano. Anche se non mi rendevo veramente conto di quello che stessi facendo». Jeannette Montgomery Barron lo spiega sorridendo
nel suo appartamento romano, a pochi passi dal Pantheon, dove vive per buona parte dell’anno con il marito mercante d’arte. Ci sono opere di Daniel Buren appoggiate alle pareti. Luigi Ontani in uno scatto del 1984, alla fontana delle tartarughe, nel ghetto di Roma. New York è decisamente lontana. «Oggi non potrei più viverci», dice «è diventata troppo nervosa».
Nell’era Reagan, invece, era un baluardo della cultura alternativa. Un Eldorado per i fratelli Monty e Jeannette Montgomery, arrivati da Atlanta, Georgia, con in testa l’estetica di Interview, la rivista di Warhol dove pubblicano i primi scatti Herb Ritts, Bruce Weber, David LaChapelle. «Eravamo abbonati al magazine: subivamo il fascino di quella scena culturale e artistica che stava nascendo. Soho era ancora una novità. C’erano le gallerie di Leo Castelli e Mary Boone. Lì persi il mio accento del sud e diventai fotografa». Sembra un film di Cameron Crowe: i Montgomery, da fan, entrano a far parte del mondo pop. Monty, nel 1981, dirige il primo film in coppia con la Bigelow, The Loveless; sarà poi produttore e attore, fino a interpretare il cowboy del Mulholland Drive di David Lynch. Grazie al gallerista amico Thomas Ammann, Jeannette, intanto, viene introdotta alla Factory e alla corte di re Warhol.
«Andy era un grande osservatore, sapeva prendere l’energia degli altri e ricaricarla. Si diventava tutti creativi attorno a lui. Dopo la prima volta, a poco a poco, riuscì a posare a suo agio davanti al mio obiettivo. Era abile nel farti credere di avere avuto una grande idea, anche se si trattava di una sciocchezza». Nel bianco e nero di Montgomery, Warhol siede come un sovrano con braccia conserte su una pelliccia di tigre. Jean-Michel Basquiat, invece, ha l’espressione malinconica e mezzo volto in ombra: «Appariva timido. E non sapevi in realtà se la sua fosse timidezza, insicurezza o una forma di paranoia provocata dall’abuso di droghe. Per lui gestire un successo così improvviso era complicatissimo. In più, negli ultimi tempi, i critici non erano più interessati alla sua carriera. Sono stata spesso nel suo studio, lo vedevo alle feste. Oggi mi pento di non aver comprato nessuna sua opera. È stato sempre carino con me. Ma su di lui c’era come un’ombra. Poteva risultare anche odioso e gettare acqua sulla testa di un ospite poco gradito, intimandogli di andare via. Al contrario, Keith Haring gestiva meglio il suo successo. Appariva più sicuro. Era una persona molto dolce».
Basquiat muore di overdose nell’estate del 1988, nel loft di Great Jones Street. Haring di Aids, nel 1990. Le
mille luci di New York talvolta si spegnevano all’improvviso. «Sì, c’era la droga. C’era molta paura dell’Aids, non esisteva una cura e mancava ogni speranza. Tanti non ci sono più. Mi sono salvata perché ho vissuto in quel mondo da osservatrice. Questo, in fondo, era il mio lavoro: guardare e fotografare. E poi l’incontro con mio marito James Barron, in un ascensore, nel 1984, mi ha fatto vedere tutto da una prospettiva diversa».
A riguardare il libro degli anni Ottanta, Jeannette non riesce a dire il nome del suo modello perfetto. «Bianca Jagger mi piaceva molto. Ma, mentre fotografi, vivi sempre come un momento di innamoramento con la persona che hai davanti. Ti innamori di quel volto. Non ricordo esperienze negative». Una però c’è. «Va bene, diciamo che Susan Sontag non fu molto gentile con me. Non so perché, in realtà. La fotografavo mentre rilasciava un’intervista. Forse questo la disturbava. Ma probabilmente la ragione principale era che non voleva essere fotografata da nessuno che non fosse Annie (Leibovitz, la fotografa sua compagna, ndr). Per certi versi era comprensibile. Comunque, riguardando ora quella New York, capisco solo una cosa: la giovinezza dura davvero un attimo».