Giuseppe Scaraffia, Sette 11/7/2014, 11 luglio 2014
LA FRANCIA DEL VATE TRA CÔTE D’ARGENT E AMORI IMPOSSIBILI
L’alba. Solo allora Gabriele d’Annunzio percepì il fruscìo del vento tra i pini. Aveva lavorato tutta la notte ed era soddisfatto. Decise di fare una galoppata prima di colazione. Pochi sapevano quanto fosse laboriosa la forzata vacanza che stava vivendo. Qualche anno prima era stato costretto a fuggire dall’Italia per i debiti che aveva accumulato. Da allora alternava soggiorni a Parigi, fitti di mondanità, ad apparenti riposi vicino ad Arcachon, «sul dosso spinoso di una duna oceanica: un lungo ordine di giorni e di opere, una lunga pazienza, una lunga attesa».
Da tempo i turisti si affacciavano al cancello, incuriositi dalla presenza di quella celebrità. Una splendida ragazza aveva dovuto assediarlo a lungo, finché un giorno Gabriele non le aveva fatto cenno di salire. Lo scrittore andò a fare visita agli amati levrieri, «i cani più nobili». I loro salti armoniosi gli suggerivano il ritmo dei versi. In certi giorni, dopo averli fatti lavare e profumare, li ravviava personalmente «dritti sulle zampe nervose», con un pettine d’argento.
Quando aveva lavorato bene, la giornata allora era riservata all’esercizio fisico e sensuale «senza mai pensare all’opera», né ai preziosi mobili e soprattutto ai libri non meno rari con cui aveva arredato la sua fastosa residenza italiana, la Capponcina. Chissà dove erano stati dispersi dall’avidità dei creditori?
Quella dei levrieri era una delle poche passioni che condivideva ancora con Donatella, l’incantevole contessa de Goloubeff. L’infatuazione per lei si era spenta rapidamente, ma quella «pazza» contribuiva ampiamente al suo mantenimento. Certo era molto gelosa e non si preoccupava di dare scandalo, ma ad Arcachon riusciva di più a controllarla.
Al confine di due immensità, la foresta e il mare, lo Châlet Saint-Dominique era un rifugio ideale. A chi gli rimproverava le spese folli per «la casa dell’austerità e della penitenza», replicava sostenuto: «Il mio squilibrio è causato dall’aver dovuto farmi una casa e ricomprare tutti gli strumenti del mio lavoro. La mia natura, il mio gusto, la mia educazione, i caratteri stessi della mia arte non mi consentono di vivere tra cose brutte e ignobili».
Dagli spessi tappeti alle tende verdi che schermavano l’immensa vetrata aperta sul mare, tutto era congegnato per la calma e la concentrazione. Ovunque affiorava la morbida schiera di cuscini che accompagnava sempre il Vate e quella colorata dei fiori disposti con gusto tra i pallidi calchi di statue antiche e le foto di donne vive o defunte.
Lì non sarebbe mai finita la giovane Emy Mascagni, la figlia del compositore che in maggio aveva resistito al corteggiamento del Vate. Eppure anche lei aveva notato con quanta rapidità quell’uomo minuto, calvo e poco avvenente, sapeva diventare irresistibile. «Il suo fascino sta nella voce. D’Annunzio parla pianissimo… non si vorrebbe perdere una sillaba… quando parla, sembra sempre che dica un segreto».
Senza venerdì. Con raffinata golosità aveva schierato sapientemente porcellane e cristalli nella sala da pranzo gialla. Calici di diversi colori attendevano vini differenti, la frutta debordava. Beveva il Bordeaux in una coppa d’oro e i vini italiani in vetri veneziani. Era in quella natura umida e intensa che un medico interpellato sull’angoscia del poeta gli aveva prescritto un Mouton Rothschild 1895. «Prenda un bicchiere di questo medicinale a pranzo. Se non fa effetto ne prenda un secondo, poi un terzo. Cominci subito la cura».
In marzo aveva compiuto cinquantanni e si sentiva più vicino alla vecchiaia e alla morte. Inoltre era estremamente superstizioso e il 1913 diventava nelle dediche il 1912+1. Per non pronunciare la parola fatale, venerdì, diceva «il giorno dopo giovedì» e per evitare la vista di un cimitero era pronto a fare lunghi giri.
L’amante scrittrice. Malgrado la calorosa accoglienza della Francia, era stato sommerso dalla nostalgia vedendo una serie di fotografie dedicate al percorso di Ulisse. «Non so chi m’abbia tenuto dal prendere il treno alle otto, tanto il desiderio della terra lontana mi mordeva il cuore. Paese divino!».
In agosto era scesa ad Arcachon con il marito, lo scrittore Henri de Régnier e il figlio Tigre, la bellissima Marie con cui aveva avuto una tiepida avventura tre anni prima. Marie, che firmava i suoi scandalosi romanzi con uno pseudonimo maschile, Gerard d’Houville, aveva trentotto anni, era straordinariamente libera. In alcune foto del suo amante più noto, Pierre Louÿs, posa nuda con una naturalezza inedita all’epoca. Era diversa dalle donne che assediavano il seduttore. Sapeva essere «due sogni in una sola carne» e passava senza remore dagli uomini alle donne. Non era gelosa e non era fedele, ma amava il marito, cui non si era mai concessa, come un fratello.
Anche se fu D’Annunzio a farsi avanti, fu lei a dettare i tempi del loro rapporto senza ambigue civetterie. Prima gli annunciò che avrebbe visto la sua camera a Parigi, poi spostò il loro incontro un mese e mezzo dopo quando sarebbe tornata da sola per fare compagnia alla sorella in cura per la tisi. Invitandolo a cena nel loro albergo, ironizzò sulla tendenza dell’italiano a enfatizzare la realtà. «Non è un posto per un poeta come lei, ma riuscirà sicuramente ad abbellirlo con la sua magia». Quando lui replicò compitamente con un invito «in una povera casa domenicana», lei gli scoprì allegramente il gioco. «Visto che Maometto non vuole venire a trovare la montagna, la montagna – non molto imponente – verrà da Maometto». Non sapevano ancora che la guerra avrebbe spento a poco a poco, anche se mai del tutto, la loro passione, allontanandoli per sempre. Malgrado le attenzioni di D’Annunzio, Marie, reduce da una passione che l’aveva ferita, rimandava ancora, pur cercando di spiegare la sua ritrosia: «Una volta mi facevate molta paura, adesso ne ho molta meno, ma ne ho ancora un po’». Poi, prima di partire: «Sono sconvolta per il grande dispiacere di non averti raggiunto. Non ho osato. Sono timida e non riesco sempre a capire quando qualcuno pensa a me con dolcezza».
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