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 2014  luglio 11 Venerdì calendario

L’ASSURDO FASCINO DELLE NAVI A VENEZIA


Scagli la prima pietra chi non ha trovato affascinante, anche proprio perché terrificante, lo spettacolo dell’ingresso e del lento transito nel bacino di San Marco dei grandi condomini-naviganti delle moderne navi da crociera, con la loro estraneità minacciosa, quasi extraterrestre nel salto di scala, oltre che nelle forme, nei confronti dell’area centrale della città di Venezia e della sua nobile storia. Poi, subito (al di là di ogni danno transitorio ai fondali), interviene il terrore che il minimo incidente possa trasformarsi in un disastro senza riparazione, in una perdita definitiva di un bene culturale collettivo insostituibile (come mostrano le foto di Berengo Gardin da oggi esposte a Milano). A favore di che cosa? Dello spettacolo della città di Venezia offerto da un insolito punto di vista ai crocieristi? Ai vantaggi economici dei commercianti e dei fornitori? E persino dello spettacolo temporaneo di cui prima si è scritto, e all’orgoglio di aver piegato il turismo a questo omaggio alla superba città?
Eppure tutto questo dura da molti anni e si va drammaticamente accentuando a causa dell’aumento di dimensione delle navi da crociera, della frequenza delle loro visite e delle notevoli complicazioni proposte dai lavori per il contenimento delle acque alte e del loro futuro funzionamento. Tutto questo nonostante l’opposizione di una parte importante della pubblica opinione, nonostante tutte le prudenze messe in atto, nonostante gli incidenti gravi che si segnalano sovente, non solo in Italia.
Non molte sono state le alternative concrete proposte per rispondere in modo efficace alla possibilità di non eccedere nella frequenza degli impedimenti di accesso alla laguna delle grandi navi, fatale conseguenza della messa in funzione del Mose, proponendo alternative concrete più flessibili e più sicure all’attracco.
Nel 2005 viene presentata, su sollecitazione dell’allora sindaco Massimo Cacciari e dell’onorevole De Piccoli, una proposta progettuale alternativa (in collaborazione con alcune delle società delle grandi navi) che verrà poi bloccata stranamente dal governo Prodi. La nuova stazione proposta era una struttura che assolveva a diverse finalità: rispondeva alle necessità di potenziamento della portualità in funzione della crescente domanda turistica-crocieristica, evitava l’ingresso delle grandi navi nel bacino di San Marco, eliminando l’impatto ed i rischi connessi al loro passaggio, poteva concorrere a risolvere, alla bocca di porto del Lido, i problemi della frequenza e della chiusura della laguna in occasione delle segnalazioni delle acque alte. La stazione inoltre era concepita per soddisfare il requisito di reversibilità previsto dalla legge speciale per Venezia: la sua struttura è prefabbricata e in elementi galleggianti che vengono affondati e collegati in sito. Erano state anche studiate le connessioni con la città e con l’aeroporto di Venezia, via mare e via terra. Tutto questo poteva costituirsi anche come polarità territoriale con funzioni ricettive e di intrattenimento rivolte ad un bacino di utenze che va da Venezia fino al litorale Jesolo – Cavallino. Il nuovo scalo del Cavallino poteva consentire l’accosto contemporaneo di otto grandi navi fino a trecetottanta metri di lunghezza ciascuna. I passeggeri accoglibili dalla nuova struttura erano circa sedicimila al giorno in partenza e sedicimila in arrivo.
È probabile che (nonostante i recenti scandali) quanto è stato proposto otto anni or sono sia fuori tempo massimo, anche se le prospettive del termine di lavori del Mose si sono assai allungate e complicate, con tutti gli interrogativi annessi al suo funzionamento, e senza una risoluzione flessibile dello sbarco a Venezia delle grandi navi, ed il rischio della rinuncia alla ricerca di un’alternativa radicale in grado di salvaguardare la città da ogni pericolo.
Anche la soluzione proposta di far passare le grandi navi sul tracciato del canale dei petroli, opportunamente modificato, potrebbe essere una soluzione che avrebbe il vantaggio di essere assai meno costosa di quella prima descritta e lo svantaggio di dover comunque dipendere dai tempi delle chiusure del Mose oltre ai turbamenti ulteriori nei confronti dell’equilibrio lagunare.
Le soluzioni alternative possibili forse (compresa l’ipotesi dello sbarco dei turisti a Marghera) esistono, ma certo i meccanismi di procedura sono (forse anche inutilmente) assai complicate.
Naturalmente, quando si scrive dei pericoli connessi alle navi passeggeri si fa cenno solo ad una delle grandi questioni della Laguna, che con i suoi 150 chilometri quadrati è la più ampia di tutto il Mediterraneo.
Nel celebre libro di Frederick C. Lane sulla storia di Venezia vi è un capitolo dedicato alla complicata serie di interpretazioni, iniziate nel XIV secolo con il celebre dibattito tra Alvise Cornaro e Cristoforo Sabbadino, intorno alla laguna, alle difese idrauliche e ai porti. I suoi nemici, dice un antico proverbio, sono tre: la terra (cioè i fiumi ed il pericolo di interramento), il mare (contro cui nel XVIII secolo furono costruiti i Murazzi) e l’uomo che voleva utilizzare al meglio la laguna per i suoi scopi marinari, commerciali e militari.
A tutto questo si deve aggiungere, nell’ultimo secolo, la questione della crisi delle aree industriali di Marghera e quella ancor più recente dell’utilizzazione del sistema delle isole e delle loro interconnessioni, ed infine quelle interconnesse ai temi ambientali. A cui si aggiungono quelle generalissime dell’esubero turistico, del calo vertiginoso della popolazione stabile dell’isola centrale, alle difficoltà connesse ad un futuro di attività più articolate rispetto a quella turistica sempre più unica, all’incapacità di affrontare un’organizzazione più organica del territorio, almeno quello comunale; senza esagerare con le pretese comprensoriali. Vent’anni or sono ho dedicato un numero della rivista «Rassegna» ad alcune di queste questioni: il numero aveva come titolo Venezia città della nuova modernità .
L’ipotesi che Venezia possa essere pensata come città della nuova modernità può apparire a prima vista francamente paradossale: Venezia è, nella coscienza del mondo intero, la città antica per eccellenza, un mito legato all’idea stessa della sua nascita che non sembra permettere alcuna trasformazione strutturale e quindi anche alcuna trasformazione verso il moderno. Vi sono piuttosto continue piccole trasformazioni, segni leggeri ma irreversibili del peggioramento progressivo del suo destino, che sembra diventato negli ultimi tre secoli sempre più definito dal mondo che la circoscrive con la propria ammirazione, piuttosto che dalla volontà interna di proposizione di attività alternative possibili.
In quei tre secoli, grandi artisti e intellettuali hanno visitato Venezia accettando in modo sorprendentemente naturale (se si esclude il caso della battaglia di John Ruskin per la sua conservazione) la decadenza della città, affascinati forse proprio anche dalla sua lenta agonia.
Ma essa è anche simbolo di quanto l’antichità della città europea fatichi a divenire il fondamento, anziché un impedimento, nei confronti dello sviluppo della propria modernità. Proprio la modernità del modello di coerenza tra geografia e insediamento che Venezia rappresenta, proprio la coincidenza della forma della città con la sua utilizzazione economica, rendono palese la scissione tra urbs e civitas che tormenta, per ragioni opposte, le città storiche europee. La città appartiene ai cittadini fin quando essi sono in grado di trasformarla secondo una naturale coerenza con l’identità che le è propria.
Ma tutto questo non è oggi affatto naturale: è necessaria ed urgente una strategia di modificazione fondata su una conoscenza dei suoi specifici caratteri strutturali e non solo su quelli testimoniali ed estetici, certamente importantissimi, proposta secondo prospettive di lungo termine, sovente in contrasto con il tempo breve dell’economia e del di mercato. Nel caso di Venezia tutto questo è esemplarmente complesso perché si scontra con la resistenza di una decadenza ricca fondata sul turismo, che ha alle spalle una lunga tradizione di successi proprio nell’uso della resistenza al mutamento.
Tale resistenza oggi sembra diventata del tutto apparente. Una grande quantità di edifici, modesti e ricchi, palazzi storici e modeste abitazioni, sono diventate alberghi o bed and breakfast, e Venezia è diventata «l’Hotel Venezia», una città carissima per viverci. Le destinazioni universitarie, specie quelle internazionali, sembrano aver perduto le ultime occasioni di sviluppo anche con i trasferimenti a Mestre delle proprie sedi, le attività connesse alle comunicazioni immateriali hanno perso ormai da trent’anni la buona occasione di diventare possibili alternative alla monoeconomia turistica ed anche le attività terziarie sono radicalmente diminuite. Le possibilità del Lido e delle isole sono state lungamente dimenticate, o male interpretate come peraltro i bordi lagunari di terraferma, capaci di costruire una città diffusa e interconnessa. Gli abitanti di Venezia isola erano 150 mila nel 1951, oggi sono circa 57 mila.