Daniela Monti, Corriere della Sera 11/7/2014, 11 luglio 2014
ELIO FIORUCCI
«Elio, stai una favola. Che hai fatto?». Elio Fiorucci, 79 anni compiuti lo scorso 10 giugno, entra nel portone di via Vittorio Veneto, a Milano, dove ha lo studio. «Ho smesso di mangiare i miei fratelli», risponde senza nessun imbarazzo ad usare un termine così fragile e insieme così potente (parola tremante/foglia appena nata nei versi di Ungaretti) per indicare gli animali che alleviamo per ucciderli e cibarcene, fratello vitello, sorella pecora, fratello coniglio. «Il mio imprinting è contadino», racconta. Ed è un complimento che fa a se stesso: «Più siamo contadini e più abbiamo la possibilità di diventare intelligenti. Gli stupidi che ho conosciuto nella mia vita sono tutti cresciuti in un grattacielo». «Ho scritto una lettera al ministro per le Riforme Boschi perché introduca nella Costituzione il principio del rispetto per gli animali. Come possiamo vendere l’immagine dell’Italia Paese della cultura, se poi strappiamo i figli alle madri che li hanno appena partoriti? Perché è questo che facciamo alle mucche e ai vitelli.
Non sono religioso, ma sono sicuro che esista una sorta di “religione cosmica” per cui se sei distruttivo, sarai distrutto. Ci siamo ridotti ad essere come pidocchi su quel grande albero che è il nostro me pidocchi su quel grande albero che è il nostro pianeta. Dobbiamo finalmente capire quello che si può mangiare e quello che non si può, perché è frutto di una violenza senza fine. Io un giorno ho detto basta. Non è stata una decisione improvvisa, erano anni che ci pensavo. Ho smesso di mangiare la carne». Il commerciante funky Fiorucci ha segnato un’epoca nella storia della moda italiana. A metà degli Anni Sessanta ha portato a Milano lo spirito libero e trasgressivo dei negozi londinesi di King’s Road e Carnaby Street, «quando ci sono capitato per la prima volta ho pensato: ma questo è il paradiso!»; poi c’è stata la grande avventura americana, la pop art, il mitico Studio 54, la lunga amicizia con Andy Warhol che per un pomeriggio intero restò nel negozio newyorkese di Fiorucci con Truman Capote, seduto in vetrina per il lancio di Interview. Luisa Valeriani, sociologa del costume, nel suo saggio «Quarant’anni di arte, design, moda e spettacolo», lo definisce «non artista né filosofo, ma un commerciante funky», dove funky sta per tantissime cose: istintivo, stravagante, diverso, imprevedibile, controcorrente ma sempre fedele al proprio spirito, alla propria etica, all’intelligenza e alla originalità delle proprie idee.
«Chi sono oggi i miei eredi? I milioni di ragazzi che come me, in ogni angolo del mondo, grazie a Internet, stanno cambiando la nostra coscienza collettiva», risponde. L’animalismo non è una pa- rentesi, «diventare vegetariano è una decisione che coinvolge totalmente il nostro modo di essere».
La dolcezza vince «Mio padre non riusciva a capire come si potesse uccidere per il piacere di farlo. Mi parlava degli uccelli migratori con una grazia e un calore che non ho mai dimenticato. Diceva: vedi, hanno covato le uova, le hanno viste schiudere e hanno dato da mangiare ai piccoli; poi hanno deciso di partire assieme per il loro lungo viaggio. Parlava degli uccelli ma usava termini come “figli”, “famiglia”. E all’improvviso, per colpa di qualche incosciente, tutto questo percorso si interrompeva sopra un roccolo, dentro le reti o a fucilate». «La colpa principale ce l’ha la religione, che ci ha insegnato che siamo superiori e diversi dagli animali.
Ma che cosa ci divide davvero? Solo la presunzione». «Sono socio anche di Animal Amnesty, un’associazione che mette in Rete tutto ciò che riguarda gli animali, nel bello e nel male. Mi chiedo sempre: è più efficace far vedere la dolcezza degli animali o le crudeltà di cui gli uomini sono capaci nei loro confronti? Io credo che valga di più la dolcezza, l’immagine dolce vince sulla cattiveria». Santi e diavoli «Ad ascoltarmi, sembro un saggio, invece poi nella vita, o per distrazione o per leggerezza, si finisce per dimenticare gli affetti più veri. Io non posso insegnare nulla a nessuno. In certi momenti si diventa diavoli non perché si sia cattivi, ma perché la vita ci porta in un’altra direzione, ci distrae, ci fa prendere scorciatoie e passare con il rosso. Io sono stato distratto dal privilegio di poter fare ciò che mi piaceva. Così ho avuto persone che mi volevano un bene dell’anima, ma quando hanno avuto bisogno di me ho risposto: non ho tempo, ho così tante cose da fare. Ho tanti sensi di colpa».
Quello che piace alla gente «Da bambino ero discolo, mi ribellavo, volevo la mia autonomia, non mi piaceva andare a scuola. Così ho cominciato a lavorare presto. Il lavoro mi ha realizzato: non ho perso il sapere della scuola, piuttosto ho acquistato i saperi della vita.
Lavoravo come commesso nel negozio di calzature di papà: lì ho capito che sapevo scegliere, che ero in sintonia con quello che piaceva alla gente.
Sentivo la necessità di fare delle cose perché vedevo che le persone intorno a me le capivano. Risolvere i problemi è sempre stata un’attività che mi affascinava: in fondo è nella natura di tutti gli uomini essere un po’ bricoleur». Il mio amico Andy «Andy mi invitava spesso alla Factory, il mio inglese anche allora era stentato, ma riuscivamo comunque a capirci in quella bolgia meravigliosa fatta di parole italiane, spagnole, francesi, tutte mescolate. Ad un certo punto gli chiedo perché i suoi quadri mi sembrassero così moderni e lui risponde: “Perché mi sono ispirato ai neon di New York facendo la mitologia della contemporaneità”. Io timidamente, non sentendomi all’altezza di parlare di pop art con lui, dico: “È vero, qui ci sentiamo al centro del mondo, ma io sono più felice in campagna”. Tutti mi hanno guardato come se fossi uno scemo. Passano due mesi e Warhol mi invita di nuovo, questa volta a casa sua dove viveva con Bob Colacello, il più prestigioso antiquario d’America, e lì mi mostra la raccolta di dipinti dell’Ottocento inglese, con immagini di animali al pascolo. Vedo quei quadri e risento le emozioni di quando ero ragazzino e mi avvicinavo alle capre con le mani piene di sale. Mi sono commosso: lì, davanti ai dipinti, ho capito quanto Warhol mi stimasse. Era affascinato da chi rompeva gli schemi e aveva il coraggio di andare controcorrente».
Fine della paura, inizio della vita «Per tanto tempo ho avuto paura. Poi, provando e riprovando, ho perso la timidezza, che non vuol dire diventare arroganti, ma sentire che attorno ci sono tante persone che ti vogliono bene e che sono pronte a sostenerti. Troppo spesso siamo bloccati dal timore di non essere accettati: io l’ho superato vedendo che, in definitiva, riuscivo a fare le cose con passione. Adesso “fine della paura, inizio della vita” è il mio motto. E per vita intendo la mia insieme a quella di tutti noi».