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 2014  luglio 11 Venerdì calendario

CARTOLINE DA SPOLETO

Nightwood... Bosco, notte, Djuna Barnes, Karen Blixen, Anais Nin, Léonor Fini, chartreuse, alkermes, lenzuola nere, prefazioni di T. S. Eliot, fondants, mezzi bicchierini di Cointreau... Bosco, notte, luna, maleficio, ricerca, aspettativa, Erwartung, Schönberg, suicidio dell’artista Gerstl... Sangue... Questa operina, la si è vista e sentita parecchie volte. Soprattutto a Berlino. E ogni volta, ci si chiede se invece di bosco e notte ci farebbe uno stesso effetto il medesimo bosco a mezzogiorno. Anche senza un’automobile parcheggiata lì davanti, con un cadavere che però non è quello giusto.
Ma intanto, fra Simbolismo ed Espressionismo e incompatibilità più o meno logiche o logistiche – e la circostanza innegabile della fuga (un anno prima) della moglie con l’artista – forse si potrebbe documentare una qualche tentazione di aborrito naturalismo o realismo. Fra bramosie e gelosie, raspando tra le foglie secche fino al cadavere giusto. E opportuno, anche senza bisogno di Freud. Basta la tomba recentissima di Richard Gerstl suicida per amore l’anno prima, le foto dell’imponente signora Mathilde Schönberg (sorella del direttore e compositore Alexander von Zemlinsky), i buoni uffici del collega compositore Anton von Webern perché lei rientrasse in famiglia... E uno scritto di Schönberg a Gerstl per cui «noi due mai dovremmo litigare a causa di una donna»... Poi lei muore, lui si risposa, gira e rigira Smaragda Berg... Nonché, ovviamente, Alma Mahler...
Buio, bosco, notte, una fetta di luna ovviamente malevola, un cadavere lì a disposizione, col suo sangue e tutto... Ma non si tratta poi di una drammatizzazione onirica molto o troppo protagnistica?... Una metafora viennese di instabilità tonale, senza soste fra i “tempi” incalzanti, su una “erranza” librettistica piuttosto studentesca, con questa orchestra grande o piccina per le varie simpatie con la voce umana?
(I ritratti della madama ad opera del pittore, con lei in posa tipo Edvard Munch ma pettinata come le Tordelle e Petronille dei nostri fumetti infantili, si trovano ovviamente alla Österreichische Galerie viennese. L’incarnato è roseo, ma in una tempera lei ha un braccio in verde e uno in ultramarino prossimo all’indaco).
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Ah, queste vecchie. «Un bel tacer non fu mai scritto?». La mort de Cléopâtre per Berlioz si limita al «vil reptil», l’aspide fatale. Senza allusioni alla leggendaria beltà che l’aveva circonfusa per anni e anni nel soggiorno a Roma, quale consorte di Giulio Cesare, con la nascita e la crescita del figlio Cesarione. Qui lasciato perdere. Come i due o tre figli con Marc’Antonio. Altro che «le lacrime dei figli!» nei melodrammi tratti da Plutarco. Per Berlioz, doppiamente vedova, nonché piuttosto anziana, giustamente si lagna perché con Ottaviano funzionano poco i vecchi fascini. Si lamenta con le Divinità del Nilo, biasima Iside e Osiride, lascia perdere i Faraoni, si abbandona a Tifone... Ma chi sarà, quel Tifone, poveraccia?
Grazie al culto delle vecchie da parte di Jean Cocteau e di Francis Poulenc, La dame de Monte Carlo sta ancora abbastanza su, malgrado l’inanità di accompagna-
tori e comparse. E del resto l’anno scorso la medesima Adriana Asti, nella Voix humaine e Le bel indifférent , apportava un notevole contributo alla solita noia maschile che all’organo femminile si ostina a preferire un giornale sportivo. A Spoleto, poi. Ottime protagoniste: Ketevan Kemoklidze, Kathryn Harries, Nadja Michael. Vecchi, molto in gamba! E così, auguri!
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«Per favore, non mordermi sul collo»... Quante spiritosate si dicevano e facevano, in occasione
del film “transilvano” di Roman Polanski, con Sharon Tate e quel titolo, mezzo secolo fa. Rieccoci?
Si mordono adesso sul collo, molto tragicamente, in una Danza macabra di Strindberg, al Caio Melisso, all’interno di un torrione cupo e davanti a un mare malevolo. Un’isola di velleità e risentimenti. Bili, fieli, astii, avversioni, acrimonie, acredini contro i vicini... Un paio d’ore di malanimi, rancori e livori, oltre che le vampirizzazioni registiche?
Giorgio Ferrara appare eccellente, soprattutto nei peg-
giori eccessi. Più pacata e placata, Adriana Asti. Forse a causa dell’età che avanza: le nostre più care memorie risalgono agli anni Cinquanta, ai bei tempi di Laura Betti e Giancarlo Cobelli. Forse su questo Strindberg ronconiano si potrebbe intavolare una polemica storica. Questa sillabazione astratta, disgiunta, così anacronistica e protagonistica, si potrebbe ancora inserire in qualche categoria del Moderno? O potrebbe venir travolta da qualche spontaneismo di tipo “social”, da conversazione corrente? E qui, di monologo in monologo, mimare (o ricadere nel) boulevard?
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Casamenti... Con parecchie stanze dimenticate in disordine... Poca voglia di verificare le valigie: tanto, sarà tutta roba che non può più andare... Ai tempi forse danubiani di Non tutto è risolto ... Con la sua elegante ironia, Franca Valeri lascia argutamente perdere. Adesso col Cambio dei cavalli , oltre che una nuova parrucchina di riccetti grigiolini, ha un solo partner nella conversazione: l’ottimo Urbano Barberini, figlio di un vecchio amico morto, e svogliatamente alle prese con i meeting, i briefing, e una escort che vuol farsi sposare. Magari in località strane, improbabili.
Il cambio dei cavalli può evidentemente alludere a «Drinn, drinn, drinn, drinn, corre e va la diligenza, passa e nel passare ognuno fa la sua reverenza...». O alle contraddizioni antiche di Odoardo Spadaro, tipo «Dammi un bacin d’amor, me n’andrò via». Lei, tanto più spiritosa quanto apparentemente severissima. E senza più tremiti in scena. Involontariamente, ecco nella telefonata con la Manciuria il rovescio della vecchia canzonetta: «Son figlio d’emigrante, per questo sono distante, lavoro perché un giorno a ‘asa tornerò »... Lei, severissima, sempre più austera. E mirabile.
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Ma che emozioni, adesso, davanti ai costumi storici di Piero Tosi per Lady Macbeth e il suo sonnambulismo, all’inaugurazione del Festival dei Due Mondi, il 5 giugno 1958. A fianco del Tosi medesimo, artefice anche delle magiche scene, con la regìa di Luchino Visconti. «Ma come avrà immaginato il “supervisore” Francesco Hayez l’abito di Lady Macbeth? Come quello celeste della donna nel Bacio di Brera?». Se le chiedeva tormentosamente, Pierino, e se lo domanda ancora adesso, fra i disegni di scarpette, berrette, borsette... Ricordando l’addentrarsi delle giovinette fra i cespugli ai margini della strada, e poi venirne fuori con trapezi, losanghe, fagotti d’imprimé... «Ma i nostri vestiti sono veramente pasticci di abiti vecchi... per l’Ottocento».
Intanto, fra cimbali e crotali, urne e sarcofaghi, Giusti e Maffei e Dupré consiglieri di Verdi alla Pergola, difficilmente si riesce a capire lo schietto trionfo di questo Macbeth spoletino con interpreti poco memorabili, mentre a una recente inaugurazione della Scala non aveva provocato emozioni paragonabili, malgrado la Callas e De Sabata.