Michele Bocci, la Repubblica 11/7/2014, 11 luglio 2014
LA RICETTA DEL GIUDICE
Era il 16 dicembre del 1997 quando il pretore della cittadina pugliese di Maglie decise che la cura Di Bella doveva essere rimborsata dal sistema sanitario nazionale, anche se non era stata ancora sperimentata. La comunità scientifica era divisa, i media martellavano con le testimonianze di persone “salvate” dal cancro dal professore emiliano. C’era un’enorme pressione anche sugli oncologi. E allora è accaduto un fatto destinato ad avere conseguenze anche negli anni successivi: ha deciso un magistrato. È la storia recente del nostro paese e riguarda casi come quello di Stamina, di Eluana o della legge 40 sulla fecondazione: di fronte a questioni bioetiche complesse, a leggi scritte male ma anche alla scaltrezza di inventori di metodi senza base scientifica, i giudici indossano il camice e stabiliscono chi deve essere curato, magari anche come, e chi no. E spesso sullo stesso caso la vedono in modo diverso tra loro.
Gli scontri di carattere bioetico, gli appelli accorati delle famiglie, le accuse tra scienziati, ciarlatani e politici finiscono per chiamare in causa un principio sancito dalla Costituzione. «Quello della libertà di cura, inteso anche come libertà di non curarsi — dice Gaetano Azzariti, che insegna diritto costituzionale alla Sapienza — Il punto è capire fino a dove può spingersi questa libertà. Perché dall’altra parte c’è lo Stato che deve tutelare la salute pubblica, anche assicurandosi che le pratiche mediche seguano criteri scientifici». La libertà di cura è dunque il cardine intorno a cui ruotano quasi tutte le sfide giudiziarie. Il principio costituzionale viene usato dai magistrati che si trovano a decidere di eutanasia e interruzione dei trattamenti, come nei casi Welby o Englaro, con le famiglie a battersi per interrompere i trattamenti che li tenevano in vita. Ma anche da chi deve decidere su amputazioni rese necessarie da una malattia. Dieci anni fa per due anziane che non volevano essere operate, una in Liguria e una in Sicilia, ci furono prese di posizione opposte da parte della magistratura: ad una fu amputato comunque l’arto malato, l’altra invece ha ottenuto di non fare l’intervento. È morta perché furono rispettate le sue volontà. Poi ci sono giudici che impongono agli ospedali cure non approvate dalla comunità scientifica, come nei casi Stamina e Di Bella, sempre seguendo quel principio costituzionale. Ma i tribunali impongono anche risarcimenti per danni da vaccini, anche in casi di malattie che la medicina ufficiale ritiene non connesse alla somministrazione di quei prodotti.
Altri Paesi affrontano problemi simili. Proprio in questo periodo in Francia si discute del caso di Vincent Lambert, un uomo in stato vegetativo per il quale parte della famiglia chiede l’interruzione delle cure. Il Consiglio di Stato di Reims ha permesso di staccare le macchine ma la madre del malato ha vinto un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Mentre nel caso della legge 40 il sistema giudiziario ha contribuito a smantellare un testo contraddittorio
rispetto alla normativa precedente, e le sentenze della corte Costituzionale sono state accolte con favore dai medici. Con Stamina in questi mesi si è raggiunto probabilmente il massimo dello scontro tra comunità scientifica e magistratura. Del metodo di Vannoni si sono occupati il tribunale amministrativo del Lazio, la procura di Torino e tantissimi giudici civili. Gli Spedali Civili di Brescia in questi mesi hanno ricevuto qualcosa come 500 ricorsi di famiglie che volevano “curare” i loro familiari con il sistema ideato da Vannoni. In circa 150 casi hanno vinto, negli altri la richiesta è stata respinta. Come sia possibile che vengano prese decisioni diverse sullo stesso tema resta uno dei punti più difficili da chiarire per tutta la comunità scientifica e per l’opinione pubblica. «Il giudice funziona come perito dei periti. Cioè seleziona gli stessi esperti che lo devono aiutare, cosa che è giusta e avviene in tutto il mondo — spiega l’ordinario di Storia della medicina della Sapienza Gilberto Corbellini — Il problema è che mentre in alcuni paesi come gli Usa hanno messo regole rigide sulle caratteristiche di questi esperti, da noi no. Il giudice può arruolare come psichiatra uno psicanalista, può chiedere aiuto sulle vaccinazioni a un omeopata o a un medico apertamente contrario a questi prodotti. Si scelgono persone giusto perché sono inserite in un albo, nessuno va a vedere se ci capiscono davvero qualcosa di quel tema. Finisce che i magistrati decidono diversamente su casi identici. La nostra situazione è figlia di una deriva che ha colpito lo Stato di diritto: ogni potere va per conto suo e si fa le regole per fatti suoi». Anche Azzariti, riferendosi alle prese di posizione su Stamina, parla di «fascia di grande ambiguità.
Su questa pratica si possono fare valutazioni soggettive. Allo stato dell’arte si deve dire che non ha effetto ma il giudice deve ponderare le esigenze, la libertà di cura dell’individuo e il bene pubblico della salute. Poi va considerato che ai giudici vengono chieste decisioni di urgenza e la loro è una “scelta tragica” come la definiscono gli americani. Non puoi non rispondere ma qualunque decisione assumi ha conseguenze, appunto, tragiche».
Il caso Di Bella è citato spesso come un precedente di Stamina, anche se l’oncologo faceva una terapia composta da farmaci comunque in commercio, quindi sperimentati e autorizzati. Ad essere bocciato da una commissione ministeriale è stato il modo in cui quei prodotti venivano combinati. Ma più magistrati hanno comunque previsto il rimborso da parte delle Asl per chi li acquistava. «La Corte Costituzionale ha detto più volte che l’attività medica si giustifica solo in quanto compiuta secondo i presupposti scientifici — dice Amedeo Santosuosso, giudice della Corte d’Appello di Milano e docente a Pavia — In sostanza questa pratica ha una riserva di scienza e chi opera al di fuori dei presupposti scientifici non ha copertura costituzionale. Parallelamente il giudice è soggetto solo alla legge e quindi nessuno può dirgli cosa deve fare, nemmeno il capo dello Stato. È una garanzia enorme ma l’altra faccia è che se si muove fuori dalle norme non è nessuno, non ha potere. Ecco se la mettiamo così, medici e giudici sono in una situazione simile. Ma come il dottore non è indipendente dalle legge, il magistrato non lo è dalla scienza». Quindi sentenze e ordinanze che ammettono cure non provate sono sbagliate? «Evidentemente non hanno funzionato alcune cose: la cultura dei singoli magistrati, il loro livello di conoscenza delle questioni e la dialettica processuale. L’Avvocatura dello Stato, ad esempio, quando si costituisce a giudizio per resistere a ricorsi di pazienti deve proporre perizie che dicano come stanno le cose».
Beniamino Deidda, già procuratore generale di Firenze, copriva lo stesso incarico a Trieste quando venne investito del caso di Eluana Englaro. «Dovevamo garantire l’esecuzione del provvedimento della Cassazione per l’interruzione delle cure — spiega — Abbiamo resistito a vari tentativi della politica di rinviare tutto, alle denunce, qualcuno ci ha pure accusati di omicidio doloso ». Il ruolo dei magistrati che decidono su questioni bioetiche è particolarmente delicato, proprio perché in questo caso entra in gioco anche la politica. «In certi casi quando si è trattato di decidere del diritto a morire dignitosamente alcuni giudici hanno detto no, perché non esiste una norma specifica — prosegue Deidda — Ma se c’è un conflitto il giudice deve decidere. Deve essere lui a dire l’ultima parola ma non può fare lo scienziato, ci vuole grande cautela». E il principio della libertà di cura? «Deve sempre essere seguito ma chi lo invoca per poter somministrare ai pazienti pratiche non scientificamente provate come Stamina, magari arriva a negarlo se viene invocato su delicati temi etici come quello del fine vita».