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 2014  luglio 11 Venerdì calendario

CON GLI OCCHI DI UN ULTRAS

Lo sguardo di Paolo è perso nel vuoto di quella vita che gli è stata strappata il 24 settembre 2005. Poche ore prima che a Ferrara venisse massacrato e ucciso Federico Aldrovandi, nella stazione di Verona una carica impazzita di poliziotti assetati di lividi lasciava a terra oltre trenta persone, e in coma un ragazzo di 28 anni, Paolo Scaroni. Un ultras del Brescia, in trasferta per vedere la partita. Solo che la partita era finita da un pezzo e i bresciani stavano tornando a casa. La macelleria ha colpito nel mucchio, tre volte, con i soliti manganelli impugnati al contrario. “È l’ultimo ricordo che ho, i laccetti davanti agli occhi. Poi, il buio”, racconta Paolo a Valentina, la fisioterapista che come un’ostetrica lo ha restituito alla vita, o a quello che può assomigliare alla vecchia cara vita.
Paolo Scaroni è invalido al 100 per cento, dopo due mesi di coma e infiniti e massacranti esercizi quotidiani, in palestra e in piscina. Fatica a deambulare, perché non controlla una gamba, della mano destra usa solo tre dita, non riesce ad articolare il linguaggio. Il suo sguardo è perso nella sua amata montagna, quella che un tempo scalava e che adesso simboleggia la vita stessa. Aspra e faticosa, dove ogni passo è un affanno. Nessuno ha pagato per quella macelleria, perché il processo di primo grado si è chiuso a Verona il 18 gennaio 2013 con otto agenti assolti per non aver commesso il fatto, ma con una riconosciuta responsabilità oggettiva delle forze dell’ordine. Come a dire: si sa chi è Stato, ma non chi è stato.
Oggi la storia di Paolo è raccontata in un bellissimo documentario, A volto scoperto, firmato dal regista Francesco Corona e prodotto da Gaetano Di Vaio col patrocinio di Amnesty International, Articolo 21 e della Fondazione Federico Aldrovandi. In attesa e nella speranza di conoscere se e in quale Festival sarà ospitato (Venezia o Torino), il Fatto lo ha visto in anteprima.
“Il mio coma è stato sfigato, non ho neanche visto il tunnel bianco – scherza Paolo con Valentina, cui è affidato il compito di riportare alla memoria quello che la memoria ha cancellato –. Pensa che mi sono svegliato con la voglia di fumare. La prima persona che ho visto, e riconosciuto, è stata mia madre. Mi sono ricordato subito il numero di partita Iva della mia azienda, ma poi nient’altro. Mi hanno portato via 15 anni della mia vita, per quei 15 minuti di filmato che dal processo sono spariti”. Scaroni si riferisce ai video delle telecamere a circuito chiuso della stazione di Verona e a quei 15 minuti, proprio quelli, grazie ai quali si sarebbero potuti identificare con certezza i macellai.
Le immagini indugiano sui lineamenti di Paolo, sui suoi capelli rossi, sulle sue lentiggini. Sulla penombra del coma – il regista ha cominciato a girare subito dopo il pestaggio –, sulla sedia a rotelle, sulla piscina della riabilitazione. Il respiro è sospeso, trattenuto, avvolto da un silenzio consapevole.
Ma il documentario si chiama A volto scoperto perché messo a nudo non è solo il corpo fragile di Paolo. Per la prima volta, a mostrare i propri lineamenti sono anche gli ultras. Del Brescia, dell’Atalanta, della Cavese. Curve coi loro codici, con la loro violenza “a mani nude”, con il loro tifo “impegnato” e con la loro contestazione, sempre e comunque, contro le “istituzioni”. Ma per gli amici si fa questo e altro, si legge sulle loro magliette, e allora a volto scoperto per testimoniare solidarietà a Paolo, nelle manifestazioni nazionali come al processo. Con gli striscioni srotolati allo stadio e sotto l’ospedale, “Il tuo risveglio, la nostra gioia”. Con i loro volti e le loro barbe incolte, con le loro parole: “Quello che è capitato a Paolo è capitato a tutti noi. Siamo gente che non si piega. Un ultras non diventa martire, resta sempre ultras anche se non ci sta più”. Uno sguardo laico su un universo di solito ostile alle telecamere.
“Se il mio mondo mi avesse tradito sarei stato nella merda”, confessa Paolo, la cui azienda agricola è stata salvata dal padre Pietro, che ha smesso la sua attività edile ed è diventato contadino, perché altrimenti, oltre alla salute e alla fidanzata, avrebbe perso anche la piccola impresa. “Più passa il tempo, più la rabbia cresce. Incontro la sofferenza a ogni passo, in ogni parola. Non posso perdonare”. Si sente un messaggio inciso sulla segreteria telefonica: “Sono Patrizia, la mamma di Federico. Tu devi continuare la tua battaglia, la tua voce è anche quella di mio figlio”.
L’appello comincerà a Venezia entro la fine dell’anno. “Cosa mi aspetto? Giustizia, finalmente – racconta Scaroni al Fatto –. Mi aspetto di trovare un giudice che abbia un po’ di coraggio. Ne avrei davvero bisogno, servirebbe a restituirmi fiducia nello Stato. Ora ne ho ben poca. Guarda questo Stato cosa mi ha fatto”. Camminare accanto a Paolo significa procedere con passo lento. E quando lo si vede, come nel documentario, riuscire finalmente ad arrampicarsi sulla parete della montagna, col respiro corto e le braccia stanche, non si ritrova la pace. Al contrario. Sale la rabbia contro uno Stato che non è in grado di tutelare i suoi figli (anche gli ultras sono figli), ma che sa ben coprire i macellai. In una spirale che, se non si ferma, raderà al suolo il senso delle istituzioni. E non solo quello degli ultras.
Silvia D’Onghia, il Fatto Quotidiano 11/7/2014