Gian Micalessin, Il Giornale 11/7/2014, 11 luglio 2014
HAMAS PUNTA SULLE DISGRAZIE DEL SUO POPOLO
Il dado è tratto. Hamas s’affida alla sua ala militare, sceglie la strada del confronto diretto e punta ad attirare l’esercito israeliano nella trappola di Gaza. La prova più evidente sono quei 365 lanci di missili susseguitisi tra martedì e venerdì. Lanci proseguiti al ritmo - virtuale - di uno ogni dieci minuti anche dopo la minaccia del presidente israeliano Shimon Peres di dar il via ad un attacco di terra. Dal punto di vista occidentale sembrerebbe una strategia suicida. Nonostante il labirinto di tunnel scavato nel ventre di Gaza, il migliorato addestramento dei suoi miliziani e la possibilità di sfruttare come scudi umani i due milioni di palestinesi della Striscia, Hamas non può aver la meglio su una macchina da guerra israeliana militarmente e tecnologicamente superiore. Ma Hamas non punta a vincere, s’accontenta di mettere al sicuro la propria dirigenza e gli arsenali più importanti. Tutto il resto, lo faranno le bombe d’Israele, la diplomazia internazionale e la propaganda postbellica. Una strategia già sperimentata nel gennaio 2009 quando, all’indomani dell’operazione militare Piombo Fuso, costata la vita a 1300 civili palestinesi, i militanti di Hamas distribuirono caramelle nei campi profughi inneggiando alla vittoria sul «nemico sionista». Oggi, cinque anni dopo, l’organizzazione ha un disperato bisogno di nuove vittime da esibire sul palcoscenico della solidarietà internazionale. Un palcoscenico raffreddatosi non solo per l’uccisione a sangue freddo dei tre ragazzini israeliani sequestrati in Cisgiordania, ma anche in seguito alle strategie sbagliate degli ultimi anni. Dopo l’abdicazione dell’emiro Hamad Al Thani e la fine degli appoggi finanziari del Qatar, dopo la caduta dei fratelli musulmani del presidente egiziano Mohammed Morsi, il gruppo sconta l’ostilità di gran parte dei «fratelli arabi». Se l’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi lo considera un nemico e sigilla i tunnel usati per rifornire la Striscia, l’Arabia Saudita guarda con indifferenza alla sorte di una formazione troppo vicina a Teheran e la Siria assiste compiaciuta al destino di un ex protetto schieratosi con i ribelli anti-Assad. La situazione più drammatica è però quella interna. La mossa israeliana di ricatturare gran parte dei detenuti liberati in cambio del rilascio del soldato-ostaggio Gilad Shalit hanno scolorito l’unica vittoria di Hamas. Il problema più grosso sono però le difficoltà finanziarie. Il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas rifiuta, anche dopo il sì al governo di unità nazionale, di trasferire a Gaza il denaro indispensabile per pagare i dipendenti pubblici. Così mentre la chiusura dei tunnel fa lievitare i prezzi moltiplicando le sofferenze dei civili Hamas sperimenta un calo di consensi senza precedenti. Paradossalmente in questo frangente l’unico evento in grado di risollevare il prestigio dell’organizzazione è un’invasione israeliana. Anche perché se Israele deve far i conti con un’opinione pubblica incapace d’accettare un conflitto prolungato e perdite elevate, Hamas punta su un alto numero di vittime palestinesi per invocare l’intervento internazionale. E mentre Israele non può spazzar via solo Hamas, ma deve - per non far i conti in futuro con nemici anche peggiori - ripulire Gaza da tutte le cellule jihadiste, a Hamas basta un missile nel centro di Tel Aviv o un attacco suicida ad una pattuglia di Tsahal per cantar vittoria. E così anche farsi mettere in ginocchio dal peggior nemico diventa, alla fine, l’opzione migliore.