Paolo Mastrolilli, La Stampa 11/7/2014, 11 luglio 2014
«MA INVADERE LA STRISCIA NON CONVIENE A NESSUNO»
In quella regione un’escalation è sempre possibile, anche per errore, ma l’invasione di terra a Gaza non conviene a nessuno». Ian Bremmer, presidente e fondatore dell’Eurasia Group, azzarda la sua previsione mentre la violenza aumenta.
Non crede all’invasione?
«Intendiamoci: è sempre un’ipotesi plausibile. Netanyahu ha richiamato 40mila riservisti, i lanci di razzi da Gaza continuano, e un incidente potrebbe sempre scatenare la guerra. Detto questo, l’invasione non conviene al premier perché sarebbe costosa, farebbe vittime e avrebbe un prezzo politico. Essendo sotto attacco, deve parlare con durezza, ma non ha promesso la distruzione di Hamas o l’annullamento della sua forza militare: queste sarebbero parole in codice che renderebbero necessaria l’operazione di terra, ma Netanyahu ha fatto attenzione a non usarle».
Hamas non avrebbe interesse a provocare un conflitto, aprendo un nuovo fronte oltre alla Siria e l’Iraq?
«Non credo, perché è isolato come mai prima. In Egitto non ci sono più i Fratelli Musulmani, e gli altri paesi della regione hanno altri problemi».
Assad ed Hezbollah spingono Hamas ad attaccare?
«Mi pare che siano già abbastanza occupati dai loro problemi, non credo che stiano fomentando queste azioni».
Gli attacchi sono frutto di una spaccatura dentro Hamas, fra chi è favorevole al governo con Fatah, e chi vuole abbatterlo?
«Se chiedi agli israeliani, in via confidenziale ti rispondono che in realtà negli ultimi due anni Hamas è stato abbastanza responsabile nel cercare di evitare azioni che potrebbero provocare risposte dure come un’invasione di Gaza. Negli ultimi giorni questo atteggiamento è cambiato, e potrebbe essere frutto di dissidi interni, ma secondo me sono eventi separati da quanto sta accadendo in Iraq o nel resto della regione».
Cosa si aspetta in Iraq?
«Siamo in una fase di stallo. Isis ha proclamato il califfato per ragioni propagandistiche, raccogliere consenso, soldi e reclute. Però non è in grado di gestire uno stato o avanzare verso Baghdad. Il premier Maliki non sembra intenzionato a formare un governo inclusivo, e le sue truppe hanno cominciato la controffensiva in città simbolo come Tikrit. I curdi si sono presi un 40% in più di territorio, e non lo molleranno presto. In sostanza c’è una nuova realtà sul terreno, che lascia presagire un conflitto lungo».
Gli Usa cosa possono fare?
«Poco. In Israele e Gaza hanno lanciato appelli alle teste più fredde, ma dopo due anni di frustrazioni Kerry non ha alcun interesse a farsi coinvolgere ancora. Punta soprattutto sui paesi vicini per evitare la guerra: il nuovo governo egiziano sta lavorando alla tregua, e sarebbe un successo importante se riuscisse a ottenerla. In Iraq Washington non sosterrà Maliki, ma ha mandato i militari perché fa sul serio: vuole capire quanto è forte Isis e lanciare operazioni anti terrorismo, per difendere i suoi interessi qualunque cosa accada al governo centrale».