Daniela Minerva, l’Espresso 11/7/2014, 11 luglio 2014
SE HAI IL CANCRO PAGHI CARO
Il diavolo si nasconde nei dettagli. Nessuno aveva fatto caso a un recondito comma del decreto 158 scritto dal ministro della Salute del governo Monti, Renato Balduzzi, convertito in legge l’8 novembre del 2012. Un codicillo agghiacciante che oggi tutti chiamano Cnn, e consente la messa in commercio di costose medicine anticancro non dispensate dal Ssn, che devono quindi essere pagate direttamente dai pazienti. Non era mai accaduto che per legge si potesse discriminare tra i malati ricchi e quelli poveri: oggi si fa, e con conseguenze drammatiche. Che lasciano intravedere uno scenario che non piace a nessuno: le cure più costose e più nuove che escono pian piano dal prontuario per essere destinate solo a chi ha i soldi in banca o una buona assicurazione che gliele fornisce.
Il fatto è che una nuova generazione di medicine, oncologiche ma non solo (vedi box di pag. 97), ha fatto saltare il banco. Costano moltissimo (spendiamo ogni anno in farmaci anti cancro oltre un miliardo e mezzo di euro). La buona notizia è che spesso funzionano. Le cattive notizie sono due: è difficilissimo stabilire in che misura saranno capaci di arrestare l’avanzata di quello specifico cancro che affligge quello specifico paziente, e spesso lo fanno solo per pochi mesi se non poche settimane. Così a fare da sfondo alla vergogna di quanto è accaduto in Italia c’è un dilemma bioetico che è al centro di un colossale dibattito internazionale: qual è il prezzo della vita?
Se ne parla da anni nelle maggiori assise oncologiche mondiali, ne sono piene le riviste scientifiche. Tutti a chiedersi: qual è il "giusto" prezzo che i servizi sanitari possono pagare per un farmaco che allunga la vita di pochi mesi o, a volte, di poche settimane? Che valore hanno quei "pochi mesi" per il malato e la sua famiglia? Non solo: quel "pochi" definito statisticamente, vuole dire che per qualcuno sono molti di più, magari anche anni, e per altri meno. Perché l’efficacia delle nuove medicine, e in genere la prognosi di un cancro, variano enormemente da persona a persona; se è vero che per alcuni farmaci, con appositi test genetici, si può vedere se funzioneranno o meno, per altri non c’è nulla capace di prevedere cosa accadrà.
Insomma il dilemma è tecnico e bioetico insieme. Come l’ha risolto l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa)? Mettendo tutto in stand by. Col mandato preciso, tutti sospettano, di non aggiungere nuove voci di costo ai già precari bilanci della Sanità. Commenta Francesco Cognetti, direttore della divisione di Oncologia Medica del Regina Elena di Roma e presidente della Fondazione Insieme contro il cancro: «Le regole di efficacia purtroppo possono essere carenti e fallaci. Gli organi regolatori valutano il "costo - beneficio" e cercano di monetizzare il valore di un farmaco. La motivazione principale che muove le scelte della nostra agenzia regolatoria è il risparmio».
Ma negare ai malati i farmaci utili è l’unico modo per risparmiare? L’American Society of Clinical Oncology sposta l’asse e si chiede quali siano i farmaci che vanno veramente registrati. Suggerendo che alcuni, forse molti, sono così marginali da poter essere lasciati fuori dal prontuario. Perché nel moltiplicarsi incessante dei cosiddetti proiettili biologici, le prove cliniche indicano che quelli davvero capaci di cambiare la sorte dei malati non sono tanti. E che, invece, si registrano molte molecole purtroppo marginali, che assicurano solo qualche settimana di vita in più a volte al prezzo di effetti collaterali pesantissimi. Ancora Cognetti: «Non possiamo affermare che tutti i farmaci innovativi devono essere immediatamente inseriti nel prontuario nazionale. Solo quelli che realmente impattano sulla storia naturale della malattia devono esserlo con rapidità. Non mi pare che l’Aifa in questo momento sia molto attenta a fare questo tipo di distinzione. In realtà, oggi, i tempi di approvazione e i sistemi di rimborso sono abbastanza simili per i farmaci importanti e per quelli di utilità marginale». Ecco allora la prima voce di risparmio: scegliere. Sulla base della rilevanza clinica.
Le scelte, è vero, rischiano di generare polemiche, e ogni volta che un’agenzia esclude un farmaco molti malati insorgono. Giustamente, dal loro punto di vista anche pochi giorni sono una conquista, ma la sintesi del dibattito che impegna clinici e bioetici su questa materia è terribile quanto ineluttabile: la società deve scegliere perché l’obiettivo nobile di preservare fino all’ultimo giorno di vita si scontra con la sostenibilità dei sistemi sanitari e apre la strada ai tagli alla cieca, alle restrizioni non discriminate sulla base dell’utilità. E quanto accaduto in Italia sta lì a dimostrarlo.
Ma la rivoluzione dei biologici che ha cambiato il passo e alzato il prezzo delle terapie anticancro è iniziata diversi anni fa. E i brevetti delle prime molecole commercializzate stanno scadendo. Farmaci importanti come il rituximab di Roche utilizzato nei linfomi non-Hodgkin al prezzo di circa 2000 euro per ciclo di trattamenti (ogni tre mesi) scaduto nel 2013; come il cetuximab di Merck Serono usato per il carcinoma del colon-retto al prezzo di oltre 300 euro a iniezione che scadrà nel 2014. Così come il blockbuster miliardario di Roche trastuzumab, l’Herceptin, attivo contro il tumore del seno al costo di oltre 30 mila euro l’anno; e per il quale l’indiana Biocon e la sudcoreana Celltrion hanno già pronta una copia equivalente che costa circa il 25 per cento in meno.
No. Non si può dire "copia equivalente". Lo abbiamo detto per i farmaci generici: scaduto il brevetto ci sono in farmacia delle copie equivalenti sul piano terapeutico. Per i farmaci biologici non è proprio così: almeno stando al can-can che si sta scatenando in questi giorni, alimentato in gran parte dalle aziende farmaceutiche che in questa partita hanno tutto da perdere.
È un film che abbiamo già visto coi generici: alimentare la paura che non abbiano proprio la stessa efficacia dei farmaci di marca. Una paura che è costata all’Italia miliardi e ci mette in coda alla classifica europea dei paesi che riescono in questo modo a risparmiare soldi sulle medicine vecchie con la possibilità di reinvestirli in quelle innovative. La storia si ripete: con la scadenza del brevetto di questi tre importanti farmaci si potrebbero risparmiare circa 200 milioni di euro nel 2015 e oltre 500 milioni nel 2020 (quando andrà in scadenza anche l’altro blockbuster Roche, l’Avastin), come ha mostrato il bocconiano Claudio Jommi su "PharmacoEconomics". Ma le premesse ci sono tutte perché nulla accada.
La prima ragione è che il prodotto di un processo biotecnologico presenta sempre degli elementi di variabilità. Per questo i tecnici dicono che le copie dei prodotti di marca sono biosimilari, non equivalenti. E per questo le linee guida delle agenzie sanitarie americana ed europea chiedono che vengano fatte delle prove cliniche per dimostrare la stessa efficacia terapeutica del farmaco che il bioequivalente vuole sostituire. Ma si può fare, e molte industrie si stanno attrezzando a farlo: persino la numero uno al mondo, Pfizer, sta allestendo il suo biosimilare dell’Herceptin Roche. Basta non credere alla manfrina del "ma non è la stessa cosa". Perché, come ha commentato Silvio Garattini: «Quando hanno l’autorizzazione a entrare in commercio, i biosimilari hanno superato tutti i controlli necessari. Sono stati verificati, e non presentano per il paziente problemi nel loro utilizzo».
Vedremo mai i biosimilari sostituire al prezzo di circa il 25 per cento in meno i costosi oncologici? Le aziende fanno il loro mestiere e mettono i bastoni tra le ruote, usando metodi analoghi a quelli esercitati per decenni contro i generici: Roche ad esempio ha messo in commercio una nuova formulazione di Herceptin, sottocutanea. Nuova modalità di somministrazione ma vecchia molecola. Man mano gli oncologi si affezioneranno a quella nuova e continueranno a usarla anche dopo che sarà scaduto il brevetto: stesso meccanismo di marketing usato da tutte le aziende per decine di farmaci in procinto di perdere il brevetto (nimesulide, omeoprazolo, e altri).
La paura che non siano uguali, la messa in commercio di variazioni della molecola, e il rapido sviluppo di formulazioni davvero più efficaci (come è accaduto con la seconda generazione di rituximab Roche): il marketing ripropone le armi messe in campo contro i generici. Sta ai medici e alle autorità sanitarie non crederci.
Insomma, bisogna scegliere e risparmiare usando i generici. Non traccheggiare come ha fatto fino a oggi l’Aifa. Perché l’allarme sui salvavita a pagamento lo ha lanciato proprio "l’Espresso on line" esattamente un anno fa: "Cancro, chi è povero muore", scrivevamo dando notizia di due farmaci oncologici a carico dei malati e dell’esistenza di una nuova categoria di medicine, la famigerata fascia Cnn. Che ha bisogno di due parole per essere spiegata: l’Aifa impiega anni a registrare un nuovo prodotto, che poi deve passare anche al vaglio delle Regioni che, per renderlo disponibile, ci mettono altro tempo inutile. In totale si arriva a un ritardo di due anni e tre mesi, e nel frattempo i malati muoiono. L’allora ministro Balduzzi decise per questo di tagliare i tempi stabilendo che, dopo essere stati approvati dall’Agenzia nazionale, i farmaci salvavita devono essere automaticamente dispensati in tutti gli ospedali del paese. Con un codicillo: in attesa che l’Agenzia definisca il prezzo che il Ssn è disposto a pagare trattandolo con le industrie, le medicine sono registrate e vendute a chi se le può pagare al prezzo di riferimento europeo. Balduzzi creò così la fascia di prezzo Cnn (fascia C, ovvero a carico del cittadino, non negoziata), e le industrie che, a norma di legge, misero in vendita i loro prodotti. A comprarli potevano essere i malati così come le aziende ospedaliere, ma con i chiari di luna e i bilanci in rosso fisso degli ospedali sono stati pochissimi quelli che lo hanno fatto.
La denuncia dell’"Espresso" scatenò l’inferno. Molte le interrogazioni parlamentari e molte le dichiarazioni di sdegno. Risultato: nell’agosto 2013 il ministro Beatrice Lorenzin, con un emendamento al Decreto del fare, impegna l’Aifa a esaminare i dossier e decidere entro cento giorni dalla richiesta dell’industria se un farmaco oncologico deve o non deve essere registrato in Italia e dispensato gratuitamente ai malati. A oggi non è mai successo. I cento giorni passano senza che nulla accada. L’Agenzia è inceppata, e le aziende commercializzano i loro prodotti al di fuori del Ssn.