Marco Damilano, l’Espresso 11/7/2014, 11 luglio 2014
AL PARTITO DI RENZI DICO NO
Se il Pd diventa il PdR, il partito di Renzi, del capo, del leader, sarà difficile restarci dentro. Ma fino a quel momento continueremo a combattere all’interno». Nessuna scissione è in vista, almeno per ora, a Livorno, dove nel 1921 nel teatro Goldoni si consumò la separazione tra socialisti e comunisti e nacque il Pci e dove quasi un secolo dopo, un mese fa, la sinistra ha perso la guida della città contro il Movimento 5 Stelle. Non si fonda un partito il 13 luglio a Livorno, al più un’associazione. "Possibile", la chiama Pippo Civati, il deputato lombardo che fu il primo compagno di strada del coetaneo Matteo Renzi nella prima edizione della Leopolda, nel 2010, il primo a finire scaricato, l’unico oppositore interno.
Cos’è "Possibile"? Una nuova corrente del Pd? L’embrione di un nuovo partito?
«Io dico che è un’intelaiatura...»
Eh no, in era renziana non si può più parlare così!
«Allora diciamo che è una sigla trasversale, per organizzare una riflessione del Pd verso sinistra. Con alcuni punti di partenza. Primo: nessuno vuole mettere in discussione la leadership di Renzi, né nel Pd né nel governo del Paese. La rottura con Renzi è avvenuta quando ha eliminato Enrico Letta da Palazzo Chigi e ha confermato al tempo stesso il patto con Berlusconi come fondamento della sua strategia politica. Secondo: la mia, la nostra non è una critica distruttiva».
Se non mettete in discussione Renzi, cosa vi distanzia dalle altre correnti del Pd?
«A differenza delle altre minoranze, io non ho un sottosegretario, a Roma te lo danno come al ristorante la "cacio e pepe", non ho neppure una pattuglia di parlamentari da buttare nella mischia per poi trattare, neanche i dissidenti del Senato lo sono».
Corradino Mineo non è un civatiano?
«Al congresso ha votato per me. Ma Vannino Chiti, di certo, non è un civatiano, è una persona libera, come lo sono io. Vorrei dirlo a certi seguaci di Renzi che sulla Rete creano un clima fascisteggiante nei nostri confronti. Dire che il Senato e la Camera non possono essere composti solo da nominati non significa essere contro Renzi e il governo».
Gufi, rosiconi e benaltristi, direbbe il premier. Gente che non avrebbe mai preso il 40,8 per cento alle europee...
«Ecco, è proprio il 40,8 per cento che deve consigliare a Renzi più responsabilità quando parla. Mi aspettavo dopo quel risultato un Renzi più uomo di Stato e meno rabbioso nei confronti di chi dissente. Quel successo dovrebbe spingere a rappresentare tutti. Le parole sono importanti, diceva un noto leader della sinistra, Nanni Moretti. Il 40,8 per cento di un monolite è pericoloso. Soprattutto se si chiede a tutto il Pd e poi a tutta la politica italiana di aderire a una sola dottrina: il Renzismo».
Che cos’è il Renzismo? Lei lo ha capito?
«Il Renzismo è prima di tutto una prospettiva dall’alto verso il basso, un tratto leaderistico. È la ricerca di una sfida contro il nemico, andava bene quando Renzi era l’outsider contro la maggioranza, ora che è al vertice rischia di trasformarsi in una inutile criminalizzazione delle minoranze. La creazione di un perenne stato di attesa, un’atmosfera da sabato del villaggio. Una tentazione plotiniana, lo faccia dire a me che mi preparavo a una vita da filosofo, da Plotino, intendo. La reductio ad unum: da lui tutto viene e tutto deve tornare».
Ma lei parla così perché ha sperimentato l’incompatibilità di Renzi: la vostra coppia durò pochi mesi. Avrà pure qualche qualità se ha conquistato in pochi mesi il Paese.
«Lo scontro tra me e lui non è mai stato di carattere personale. Riconosco a Renzi il merito di essersi trovato nella posizione giusta. La politica italiana ha creato negli ultimi tre anni l’habitat naturale per il fiorentino. C’era un Paese che aveva bisogno di un nuovo leader dopo Berlusconi e una sinistra che voleva vincere, a tutti i costi, dopo aver "non-vinto" nel 2013. Renzi ha preso un grande voto popolare, è arrivato quando non c’erano più destra e sinistra e lui di gran lunga è il più mobile, incarna l’innovazione e il cambiamento necessario, sia pure in versione muscolare, un po’ manesca verso chi non la pensa come lui. Simile in questo al Berlusconi del 1994, al Grillo del 2013, soprattutto a Craxi. È lui il modello di riferimento».
Matteo come Bettino?
«Sia chiaro: non mi riferisco al Craxi dei primi anni Novanta, travolto dalle inchieste di Mani Pulite. Penso al Craxi giovane, dinamico, spregiudicato, alla sua idea di politica: la ricerca di un potere che si deve conquistare e poi si deve saper mantenere. Decisive sono state le larghe intese: hanno fatto svanire contemporaneamente Berlusconi e il vecchio gruppo dirigente del Pd che si erano combattuti per venti anni. Ora lo scontro è tutto interno al Pd, tutto pro o contro Renzi. Le riunioni delle direzioni del Pd sono esemplari: in apparenza si vota su un punto all’ordine del giorno, in realtà ci esprimiamo sempre sulla stessa cosa, anzi, la stessa persona: Renzi».
Che fa, rimpiange il vecchio Pd di Pier Luigi Bersani, con la sua babele correntizia, immobile, sconfitto?
«In quel Pd c’era un eccesso di burocrazia, ma anche una cultura politica più rispettosa delle differenze, un necessario pluralismo...».
Dimentica che l’apparato bersaniano vi piazzava una contro-manifestazione ogni volta che Renzi, voi o altri vi riunivate. A proposito: perché a Livorno non avete invitato i renziani?
«C’è Filippo Taddei, fa parte della segreteria, sarebbe un errore non definirlo renziano... e poi il riconoscimento deve essere reciproco».
Sarà. Ma questa incomunicabilità sa tanto di partito nel partito, anticamera di una scissione.
«Nessuna scissione. Sono rimasto nel Pd anche se ho visto tante cose che voglio rifiutare. Il patto del Nazareno con Berlusconi, per esempio. C’è o non c’è? È scritto o orale? Sembra la lettera rubata di Edgar Allan Poe. Non si può valutare tutto quello che si muove alla luce di cosa conviene o non conviene a Matteo Renzi».
Che margini di sopravvivenza ci sono per chi è minoranza nel PdR, il Partito di Renzi?
«Bisogna conquistarsi uno spazio. In politica devi intestarti le battaglie per cui tiene davvero, devi caratterizzarti. Quello che non capiscono i turchi, i bersaniani, pensano che prima o poi nel partito toccherà a loro, non vedono che Renzi farà da sé il prima e il poi. Il mio obiettivo è costruire un centrosinistra nettamente delimitato, alternativo ad Alfano, per esempio, con un gruppo dirigente che abbia una visione. E una vita democratica dentro il Pd. Trasparenza sui finanziamenti, consultazioni on line, recupero di temi come l’ambiente e la legalità, oggi dimenticati».
È l’embrione di un nuovo partito di sinistra con Civati leader?
«Non ci sono persone che cercano un nuovo capo. E io in questo progetto mi sento più un federatore che un attore, uno che cerca di mettere in dialogo tutto quello che si muove a sinistra».
A sinistra, in Sel, per la verità qualcosa si muove, ma per saltare sul carro renziano...
«Gennaro Migliore vuole entrare nel Pd per dire le stesse cose che diciamo ora noi. Non ho capito la sua mossa, mentre guardo con grande interesse al travaglio di Sel».
E il Movimento 5 Stelle? Lei è stato accusato da Beppe Grillo di qualunque nefandezza perché corteggiava i deputati di M5S, un deputato si spolverò in tv la giacca perché lei lo aveva sfiorato, che effetto le fa vedere ora Luigi Di Maio che insegue Renzi?
«Mi fa piacere che ora il Movimento si interroghi, di me Grillo disse che ero la mafia perché cercavo il dialogo con loro, ora spero che Di Maio non si riveli un renziano in erba... In un anno M5S ha perso due treni, l’uscita di scena di Berlusconi e prima ancora l’elezione del presidente della Repubblica. Sono al bivio, possono diventare un terzo polo oppure un movimento di popolo contrapposto a un blocco di governo che va da Renzi a Migliore. La vera domanda è cosa succede nell’area berlusconiana: perché non fanno una Leopolda della destra? Se non si muove nulla, resterà il partito della Nazione renziano, che non è esattamente il bipolarismo competitivo tra due schieramenti che Matteo aveva promesso».
È possibile un Pd senza la R, senza Renzi?
«Il Pd era un partito orgoglioso di non essere un partito personale. Siamo ancora in tempo per evitare che lo diventi. Le prossime evoluzioni non possiamo stabilirle noi, non le conosce neppure Renzi. O si sviluppa un’alternativa dentro il Pd, o il Pd diventerà sempre più il partito del Capo, del Leader, dove c’è solo la R di Renzi senza il partito. E allora per tanti di noi sarà sempre più difficile restarci dentro».