Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 10 Giovedì calendario

ATTENTO AL FLOP


Centocinquanta giorni non sono tantissimi per giudicare un governo, però sono già largamente oltre il limite della cosiddetta «luna di miele»: quei 100 giorni iniziali in cui l’opinione pubblica è più benevola con i governi neonati.
Li ha sfruttati bene, Matteo Renzi, questi primi mesi del suo mandato? Dipende dai punti di vista. Se assumiamo il punto di vista del Pd, la luna di miele è stata gestita in modo magistrale. Onnipresente in televisione e nei social media, attentissimo ad accreditarsi come colui che, qualsiasi cosa facesse, lo faceva «finalmente», «per la prima volta», «dopo vent’anni che aspettiamo», abile nella scelta degli 80 euro in busta paga come carta vincente per le elezioni europee, Renzi ha fatto un vero miracolo. Il Pd sembrava moribondo dopo la cura Bersani, in pochi mesi si è trovato a occupare la scena quasi da solo, visto che Beppe Grillo non è un’alternativa di governo e il centrodestra non riesce a riorganizzarsi.
Se però assumiamo un punto di vista un po’ meno unilaterale, e ci chiediamo che cosa Renzi abbia fatto, o almeno stia facendo, per modernizzare l’Italia e sbloccare l’economia, il quadro cambia drasticamente. Con tutta la benevolenza che chiunque tenti di governare l’Italia merita, non si può non notare che la macchina delle riforme appare sostanzialmente imballata.
È imballata sul terreno del cambiamento delle regole, ossia legge elettorale, Senato, titolo V. Qui Renzi pare non essere stato capace di cogliere l’attimo fuggente dell’accordo con Berlusconi: se avesse accelerato subito (a marzo), anziché tergiversare e mediare, gli avversari interni non avrebbero avuto il tempo di organizzare il Vietnam che ora si profila. Ma non si tratta solo di scelta dei tempi: se la resistenza antiriforme è così forte, e il numero degli oppositori è in costante aumento, è anche per ottime ragioni, prima fra tutte la bassa qualità tecnica delle proposte e la scarsa competenza dei tanti che se ne occupano. Su questo, mi spiace dirlo, c’è stato un equivoco: un conto è dire che i «professoroni», i vari Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, non hanno il monopolio della verità e possono benissimo essere criticati, un conto è affidare ai dilettanti una materia complessa e tecnicamente intricata come il ridisegno delle regole del gioco democratico.
La macchina delle riforme è imballata anche sul terreno che più dovrebbe interessare i cittadini, quello delle riforme economico-sociali. Basti dire che, in barba alla velocità renziana, i governi Monti-Letta-Renzi hanno in sospeso qualcosa come 812 provvedimenti attuativi, di cui ben 133 generati nei primi mesi del governo Renzi.
Per non parlare degli altri tasselli della politica economico-sociale. Nel primo trimestre dell’anno il Pil è diminuito, e per il secondo trimestre si prevede una sostanziale stagnazione (una previsione compresa fra -0,1 e +0,2 per cento equivale a una profezia di immobilità). I famosi 80 euro in busta paga, per ora, non sembrano aver dato ai consumi la spinta che il governo si attendeva. Può darsi che questo sia dovuto al fatto che nessuno sa se il bonus sarà rinnovato anche nel 2015, ma resta il fatto che i pochi dati disponibili suggeriscono un impatto sui consumi ancora minore di quello che gli osservatori più pessimisti (quorum ego) avevano ipotizzato.
Quanto ai conti pubblici la situazione è piuttosto precaria. Le privatizzazioni, che in teoria avrebbero dovuto portare nelle casse dello Stato 12 miliardi nel 2014, sono in grave affanno, a partire dalla cessione del 40 per cento di Poste italiane, che non sarà in grado di fruttare i 4-5 miliardi previsti dato il probabile rinvio al 2015. La spending review di Carlo Cottarelli, che sulla carta dovrebbe garantire 17 miliardi di risparmi nel 2015, è ancora del tutto priva di piani operativi e, soprattutto, di obiettivi territoriali precisi (è noto che il grosso degli sprechi della pubblica amministrazione si concentra nelle regioni meridionali). Non solo, ma dei 17 miliardi di risparmi ipotizzati oltre 4 sono già impegnati a causa di scelte politiche precedenti, e non potranno quindi essere utilizzati né per nuove spese né per ridurre le tasse. Il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, prima promesso «entro luglio», poi (nel salotto di Bruno Vespa) rimandato al 21 settembre, slitterà quasi certamente al 2015, come ha onestamente riconosciuto il luogotenente di Renzi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, in un’intervista di qualche tempo fa al quotidiano La Stampa.
E su tutte queste incertezze aleggia il fantasma dello spread: da circa un mese la tendenza dominante è al peggioramento, e nulla fa pensare che i tassi di interesse estremamente bassi che attualmente caratterizzano la zona euro siano destinati a durare ancora a lungo.
Ma quel che più colpisce, nel frenetico agitarsi di Renzi e dei suoi, è il riemergere dei più classici vizi del nostro ceto politico. La politica degli annunci, innanzitutto. La sovraproduzione di discorsi alati ma sostanzialmente privi di impegni precisi (un difetto che è stato immediatamente notato in Europa). L’eterno rinvio delle scelte difficili. Il mancato rispetto delle scadenze. La frenetica produzione di leggi che devono attendere mesi, e alle volte anni, per essere applicate. La stratificazione di norme su norme che si aggiungono alla selva delle norme precedenti, senza mai disboscare la giungla legislativa. Il primato, nella scelta dei ministri e dei sottosegretari, della fedeltà politica sulla competenza. Tutte cose già viste, naturalmente. Cui però oggi si aggiunge un ingrediente nuovo e stridente: la rivendicazione di un cambiamento, di una rottura radicale con il passato, di una diversità da tutti coloro che hanno preceduto l’attuale compagine di governo. È qui che Renzi e i suoi si sbagliano. Di veramente nuovo, nel governo Renzi e nel cerchio magico dei suoi fedelissimi (o «musicanti», come li ha appena ribattezzati Eugenio Scalfari), c’è solo la loro completa mancanza di umiltà. La sicurezza con cui maneggiano problemi che, a chiunque li abbia studiati, farebbero tremare le vene e i polsi, è l’indizio più sicuro che siamo ormai entrati in una nuova era. Un’era che Marianna Madia inaugurò qualche anno fa quando, paracadutata da Walter Veltroni in Parlamento, ebbe a dichiarare che metteva la sua inesperienza al servizio del Paese. Con una differenza, però: nelle parole di Marianna si poteva avvertire una punta di autoironia, una leggerezza che poteva farle apparire innocue; mentre in quelle di Renzi e dei suoi, sempre pronti a proclamare il cambiamento e a squalificare ogni dissenso, di autoironia non se ne avverte un grammo.