Stefano Caviglia, Panorama 10/7/2014, 10 luglio 2014
ADDIO MIA CASA
Quando l’impiegata torinese Marcella Raffoni è andata in pensione, nel 2010, si è posta la domanda di molti a quel punto della vita: come impiegare il risparmio degli anni passati? La sua risposta è stata la stessa con cui da sempre la piccola e media borghesia italiana cerca di proteggersi dall’incertezza del futuro. Ha comprato due appartamenti di piccolo taglio e li ha dati in affitto. È stato un errore. Purtroppo per lei, la regola aurea del risparmio privato del Novecento («Comprate immobili, perché domani costeranno più di oggi») non sembra più valida nell’Italia del 2014. Le sue due case, complice la crisi economica, sono sfitte e una è pure incappata nella sfortuna di un inquilino moroso (con l’Agenzia delle entrate che pretende le imposte sul reddito non percepito fino alla convalida dello sfratto). Nel frattempo la tassazione è aumentata di quasi il 300 per cento. Il risultato è che la signora si trova a dover affrontare un bel po’ di spese impreviste in un momento in cui dai suoi immobili non ricava alcun reddito. «Anziché comprare queste due case» dice ora sconsolata «avrei fatto meglio a tenere i miei soldi in banca. Non solo sarei più ricca ma avrei anche un reddito più alto, visto che solo di tasse mi costano migliaia di euro l’anno. Ogni tanto mi viene la tentazione di venderle, ma come si fa? Il valore del mio investimento, considerando il calo dei prezzi e le spese per le ristrutturazioni, si è ridotto di quasi il 50 per cento».
Di storie come questa se ne contano a migliaia, in tutta Italia, nelle città di provincia più che nei grandi capoluoghi e nelle periferie più che nelle zone centrali e di pregio (le uniche che riescono, in parte, a difendersi). Il contesto in cui nascono è chiaramente la falcidia dei redditi causata dalla crisi economica, ma ad accendere la miccia è stato l’inasprimento selvaggio della tassazione, che ha portato il gettito fiscale complessivo degli immobili (senza contare l’imposta sul reddito) dai 9,2 miliardi di Ici pagati nel 2011 ai 25-28 (a seconda dell’aliquota che sceglieranno i sindaci da qui a fine anno) dell’accoppiata Imu-Tasi del 2014.
Non per niente la vera caduta dei prezzi non è cominciata con la crisi, nel 2008, ma nel 2011, quando il governo di Mario Monti ha introdotto i nuovi moltiplicatori da cui ricavare il valore catastale (su cui si paga l’Imu): dal 100 al 160 per cento della rendita. È lì che si è creata una situazione senza precedenti nella storia del mercato immobiliare italiano. «Oscillazioni nei valori ce ne sono sempre state» spiega a Panorama il presidente della Confedilizia, l’associazione dei proprietari immobiliari, Corrado Sforza Fogliani, «ma mai di questa violenza. Fra diminuzione dei prezzi e aumento delle tasse, la casa è diventata un incubo. Chi ne riceve una in eredità non sa più se deve gioire o dolersi».
L’attenzione è soprattutto sulla prima casa, visto che quasi il 70 per cento delle famiglie italiane possiede quella in cui abita. Ma di fronte a quel che si è verificato per le seconde case e gli immobili con destinazione commerciale le sue peripezie sono quasi da considerare minori. Come si vede nelle tabelle pubblicate a pagina 52, una prima casa di categoria A di 5 vani nel 2011 non pagava nulla di Ici e ora oscilla fra i 300 e i 400 euro. Un bel salasso certo, ma volete mettere con chi su una seconda casa pagava 500 e ora arriva a 1.500?
Nonostante l’aumento delle tasse, ci sono persone comunque disposte a comprare casa, se non altro per coronare il sogno di una vita. Persone che troveranno però un ostacolo ancor più grave: la resistenza della banca a concedere un mutuo. Chi compra per ricavarne un reddito, invece, ragiona solo sulla base della convenienza economica, per cui considererà insieme il livello della tassazione e quello del reddito che può ricavarne. «Il calo del numero delle compravendite», spiega il presidente del centro studi Scenari immobiliari, Mario Breglia, che pure è abbastanza ottimista sulle possibilità di ripresa dei valori, «è dovuto in parte agli immigrati che non trovano più il mutuo per la prima casa e soprattutto al fermo completo del mercato delle case acquistate per investimento. Rispetto al 2010 ne mancano all’appello almeno 150 mila».
Ed è proprio su questo versante che si registra l’altra particolarità della crisi del mattone targata 2014. Fino a un paio d’anni fa il rallentamento degli acquisti era accompagnato da un rafforzamento (o come minimo da una tenuta) del mercato delle locazioni, per l’ovvia ragione che chi non può comprare casa è costretto a prenderla in affitto. Ora invece si sta verificando un fenomeno nuovo, a cui pochi hanno dato risalto. «Di fronte al rischio di dover sopportare spese di condominio e tasse record in assenza di reddito», dice Federico Tomassi dell’agenzia immobiliare romana De Seta, «molti proprietari si accontentano di fitti che un tempo avrebbero rifiutato. Ci sono inquilini che riescono a rinegoziare al ribasso l’affitto prima ancora della scadenza del contratto. Così il calo dei valori immobiliari alla vendita e quello dei canoni di affitto si alimentano a vicenda». Tutto questo ha una ricaduta, di carattere industriale e sociale, anche sul settore delle costruzioni, probabilmente il più colpito dalla crisi di questi anni, con una diminuzione di 57 mila aziende fra il 2009 e il 2012 e una perdita di posti di lavoro che sfiora le 800 mila unità considerando anche l’indotto. I dati dell’Osservatorio congiunturale diffusi martedì 8 luglio dall’Associazione dei costruttori edili (Ance) dicono chiaramente che la ripresa non è neppure cominciata anzi la situazione continua a peggiorare. Il numero dei fallimenti è aumentato pure nel primo trimestre del 2014: più 6,3 per cento rispetto all’anno precedente. «Gli investimenti» avverte il presidente Paolo Buzzetti «sono tornati al livello del 1967».
Un altro segnale inquietante è l’inversione del rapporto fra i prezzi delle stime ufficiali e quelli reali. Un tempo i secondi erano regolarmente superiori ai primi, mentre ora accade il contrario. Lo dimostra una tabellina fornita a Panorama dalla stessa Confedilizia con i prezzi di aggiudicazione delle ultime aste giudiziarie effettuate nel 2013 su tutto il territorio nazionale, con accanto le relative valutazioni dell’Osservatorio del mercato immobiliare (Omi) dell’Agenzia delle entrate. Ebbene: su 40 vendite, appena 6 rientrano nella forchetta fra minimo e massimo. In tutti gli altri casi il prezzo di vendita reale è al di sotto del minimo delle valutazioni Omi, talvolta anche di più del 50 per cento. E pensare che soltanto qualche mese fa in Parlamento c’era chi proponeva di usarle come base per il prelievo fiscale, in attesa delle nuove rendite catastali! Vuol dire che anche le fonti ufficiali come l’Istat, che il 3 luglio scorso ha parlato di un calo del 15 per cento negli ultimi 4 anni delle case già esistenti, potrebbero sottovalutare la reale caduta dei valori? Le grandezze di cui si sta parlando sono, beninteso, assai difficili da stabilire. Il vero prezzo di un immobile si conosce solo nel momento in cui un compratore mette sul tavolo i soldi necessari a pagarlo. Ma va comunque tenuto presente che quasi tutti gli attori in campo hanno interesse ad abbassare i toni per evitare che al danno della crisi si aggiunga quello psicologico.
Gli esperti dicono che non è assolutamente il caso di vendere e anzi è quasi il momento di comprare, perché fra non molto il pendolo tornerà a oscillare nella direzione opposta. Sarà anche vero, ma immaginate per un attimo di avere del denaro da investire o un mutuo da prendere in banca. Con i tempi che corrono, quante volte ci pensereste prima di comprare una casa (o un negozio, o un ufficio) e attirarvi con ciò un’immediata batosta di tasse?