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 2014  luglio 10 Giovedì calendario

NELLA MENTE DEI KHMER ROSSI

«Solo più tardi ho saputo che la maggior parte di coloro che tran­sitavano dal mio ufficio finivano i loro giorni nel S-21 (il famigera­to lager di Phon Phem, ndr)». Ordinarietà di un genocidio. Il più sanguinoso di tutta la storia. Un terzo della popolazione cambogiana fu sterminato nel­l’arco di soli 4 anni, da quel 17 aprile 1975 quando le trup­pe di Pol Pot conquistarono il potere in quella che fu ce­lebrata (purtroppo anche in Occidente) come la Kampu­chea democratica, "paradiso" proletario per generazioni di intellettuali "democratici". Un milione e mezzo di per­sone, su poco più di 4 milioni di abitanti, sacrificate sul­l’altare di nozioni come "lotta di classe", "dittatura del proletariato" e altri diktat di marca marxista-leninista.
Ora, per la prima volta, la genesi e la "normalità" del genocidio cambogiano è descritto nel suo formarsi, nel suo accrescere e nel suo svolgere da una voce interna. A farlo è Suong Sikoeun, intellettuale asiatico che militò nelle for­ze khmer, anzi fu il megafono della propaganda di Pol Pot quando nel 1977 al ministero degli Affari Esteri - de­nominato B-1, in stretto linguaggio burocratico-comuni­sta - fu incaricato della sezione ’stampa’, precipuamen­te dell’Agence Kampu­chéa d’Information. Fu così, en passant, che Suong - che ha da poco pubblicato in Francia le sue poderose memorie, I­tinéraire d’un intellectuel khmer rouge (Cerf, pp. 540 , euro 35) - ebbe a che fare con Oriana Fallaci, la cele­bre inviata italiana, e Ti­ziano Terzani, la prima ’insistente’ nel cercare un’intervista con Ieng Sary, numero due del regi­me; il secondo autore di u­na memorabile intervista allo stesso per il settima­nale L’Espresso . Nella qua­le lo stesso Ieng - nota be­ne: il mattatoio ordito da Pol Pot per ’purificare’ il popolo da tutti gli ele­menti borghesi era già in atto - qualificava ’l’espe­rienza rivoluzionaria cam­bogiana’ come ’senza precedenti’.
Ma torniamo a Suong e al suo itinerario all’interno del comunismo orientale. L’apprendistato di salsa marxista avviene per lui, come per altri, a Parigi, santuario degli studenti cambo­giani, dove una serie di insegnanti universitari introducono quella che domani sarà un domani l’elite dello sterminio asiatico ai concetti della Rivoluzione del 1789 coniugati al­l’esperienza comunista. Confessa Suong: «Per quel che mi riguarda, vi è stato un lento processo che risale agli anni ’50 in cui, mentre ero alle superiori, mi sono esaltato per la Rivoluzione francese di cui feci miei gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Questa influenza è stata raffor­zata dal mio arrivo in Francia per l’università. Nel corso degli anni mi sono gettato a peso morto nelle attività e nei dibattiti politici, attraverso riflessioni personali ap­profondite, si è formato a poco a poco nel mio spirito un amalgama di concetti che mi ha condotto alla convinzio­ne che solo una rivoluzione violenta, condotta per un ma­nipolo di militanti devoti e risoluti, intimamente legati al­le masse, sotto la direzione del Partito marxista-leninista, potesse mettere un termine ai mali di cui soffriva il mio Paese e il mio popolo: dominazione straniera, oppressio­ne feudale e ingiustizia sociale». Ancora: «Ho letto con a­vidità tutto quello che riguardava sulla Rivoluzione fran­cese, con preferenza per i giacobini e il suo capo, Robe­spierre, che era il mio eroe e il mio idolo. Mi sono con­vinto all’idea di una trasformazione della società con il metodo rivoluzionario e la necessità di una dittatura pro­letaria ». Suong dà così ragione direttamente al compian­to cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger il quale nel suo libro-intervista ( La scelta di Dio, Longanesi) indicava nel mix Rivoluzione del ’89-marxismo - di cui era imbevuta una certa cultura francese del Novecento - la responsa­bilità di aver ’armato’ la pistola del genocidio cambo­giano: «Abbiamo saputo più tardi che un futuro braccio destro di Pol Pot fa­ceva parte di uno dei gruppi estremi­sti dell’Ecole Normale di Parigi», atti­vi durante il ’68 francese. Non mancano, nelle pagine di Suong, racconti di fatti e curiosità quotidiane in salsa polpotiana: negli uffici dei mi­nisteri non si potevano usare i ventila­tori anti-caldo, ’pratica borghese’, seb­bene ci fossero tutti gli strumenti del caso; la famiglia veniva ’rieducata’, i genitori perdevano il diritto di educa­zione verso i figli (terribile l’aneddoto per cui la seconda figlia di Suong, ve­dendo il padre insieme al fratello, in­dica a questo la presenza ’di suo pa­dre’, distanziandosi così dal genitore secondo le direttive del Partito); nessuna possibilità di ce­lebrare delle feste, addirittura i matrimoni veniva combi­nati dai responsabili del Partito; e seguendo il celebre det­to della Fattoria degli animali, anche nella Cambogia pro­letaria vi era qualcuno ’più uguale degli altri’: i membri del Comitato centrale del Partito ricevevano 3 pasti al gior­no, i cittadini normali dovevano far meno della colazio­ne. Lo stesso Suong, al culmine della propria fede nel co­munismo, non aveva esitato a pensare di dare un nome ’sovietico’ alla primogenita, chiamandola Néva in onore del fiume che attraversava Leningrado. Poi, però, quando l’Urss aveva cambiato atteggiamento verso l’esperienza ri­voluzionaria cambogiana, anche la piccola mutò nome.
Eppure, una domanda serpeggia nel racconto di Suong, e talora affiora in superficie nel racconto dell’interessato: come è potuto succedere che una persona all’interno del­la stessa classe politica ai massimi livelli del regime non si sia potuta accorgere della strage, tanto massiccia, quan­to invisibile, che Pol Pot metteva in atto? «Perché non ci siamo accorti di niente? È certo che il sistematico lavaggio del cervello com­binato ad una psicosi della paura ci ha resi muti e ciechi. Da qui, a parlare di lassismo e complicità, il limite è alea­torio. Nessuno, tra di noi, ha avuto il coraggio di riconoscerlo».
Eppure qualche avvisaglia un politico ed esperto come Suong (che ha girato il mondo, in nome della rivoluzione perfetta alla Pol Pot) poteva averlo. Ma, è lui ad ammetterlo, «ho preferito chiu­dere orecchi e occhi». Come quando, nel 1977 un contrattempo durante un viaggio con gli ambasciatori di Thai­landia e Svezia lo costringe a fermarsi per strada. La delegazione si vide avvi­cinata da una bimbetta malnutrita che chiedeva di esser portata a vivere a Phnom Penh. «Per con­vincerci iniziò a raccontare la vita che faceva nella coope­rativa locale. Con un lavoro molto duro e un solo pasto di riso al giorno, non le era possibile sopravvivere. E lei non ci poteva mentire visto il suo aspetto di malnutrizione a­vanzata e di grande malessere fisico». Ma si sa, l’ideologia rende ciechi anche di fronte all’evidenza. E allora a Suong non resta che ammettere: «La Rivoluzione è morta. Ab­basso la Rivoluzione!».