Vittorio Feltri, Il Giornale 10/7/2014, 10 luglio 2014
GLI 80 ANNI DI RE GIORGIO LA GRIFFE DELL’ITALIA CHE VA
Giorgio Armani domani taglia il traguardo degli 80 anni, che non sono pochi, ma non bastano a chi non abbia buttato via la vita e abbia tante cose da fare, per esempio badare a un’azienda ancora in grado di svettare nel mondo. Avendo il senso della misura, non gli auguriamo 100 di questi giorni: una ventina possono bastare per consolidare un successo che lui stesso, ne siamo sicuri, non si aspettava. Armani non è un brand qualsiasi: è il brand italiano per antonomasia, il più noto, il migliore, quello che ci consente di non vergognarci del nostro bistrattato Paese, calunniato dalle stesse persone che vi sono nate e cresciute, in certi casi arricchendosi.
Il principe degli stilisti è paragonabile soltanto, per fama internazionale, a Enzo Ferrari, il papà della rossa Ferrari, l’auto dei sogni e della realtà, ambita da chiunque continui a considerare la macchina sportiva uno status symbol. Non per sminuire la bravura dell’Ingegnere, ma un conto è sfondare con i cilindri, un altro è imporsi con gli chemisier, i tailleur. La meccanica, avvalendosi di raffinate tecniche e tecnologie, al cui progresso contribuiscono legioni di specialisti, fa prodigi ogni dì; i vestitini - maschili e femminili - li puoi rivoltare e acconciare all’infinito, ma rimangono pur sempre straccetti.
Il piacentino Giorgio è riuscito, non si sa come, a trasformare tali straccetti in oro sonante, ricchezza allo stato puro, oggetti ammirati e strapagati nelle boutique di ogni continente. Quale sia il suo segreto non si sa ed è inutile cercare di scoprirlo. È un fatto che quest’uomo mite e schivo ha compiuto il miracolo di trascinare la moda del nostro vituperato Paese, un tempo paesana e apparentemente priva di avvenire, allo stesso livello di quella francese, rinomata e giudicata inarrivabile.
Sbaglia chi pensa che Armani sia soltanto un artista, un signore stravagante e fantasioso attrezzato per attizzare le donne (e i loro mariti o compagni o come diavolo li volete chiamare) offrendo un campionario vasto di abiti dalla foggia originale. Oddio. Per essere artista lo è, eccome se lo è. Ma è anche un imprenditore avveduto e sagace, estroso eppure concreto. Lo si è capito dopo la morte del suo socio e amico, Sergio Galeotti, che dirigeva la parte commerciale. Vogliamo dircelo? La più difficile. Vendere e incassare non è un gioco e richiede cinismo, cattiveria, praticità esasperata. Galeotti nel ruolo dell’affarista era un mago. Scomparso lui, i commenti degli esperti, o presunti tali, furono univoci: Armani, orfano del suo mentore, taciturno e trainante, andrà a farsi benedire.
Un corno. L’impresa, lungi dall’incagliarsi, proseguì speditamente nel vasto mare dell’abbigliamento e, tra lo stupore generale, incrementò il fatturato e la propria celebrità. Ma chi è Armani, Mandrake? Molto di più. Muto come un pesce, egli è andato avanti quale panzer stendendo la concorrenza su qualsiasi mercato. Che storia la sua! Figlio di un impiegato e di una sartina che nell’immediato dopoguerra confezionava camicette e gonnelline con la seta dei paracadute americani, rimasti appesi agli alberi delle colline piacentine, cresciuto in un appartamento modesto con la stufa in corridoio, Giorgio terminò con lode il liceo scientifico e s’iscrisse a medicina. Desiderava indossare il camice bianco e curare i malati. Capisco. È la stessa cosa che avevo programmato per me. Ma la vita ti prende in giro e ti butta dalla parte opposta rispetto a quella dove speravi di andare.
Cosicché Armani il dolce, per motivi di sussistenza, fu obbligato ad abbandonare l’idea di trascorrere l’esistenza in corsia e, allo scopo di mantenersi, si proiettò in vetrina. Si impegnò come vetrinista alla Rinascente di Milano (mestiere che indegnamente ho fatto anch’io in gioventù). Fece carriera e divenne responsabile degli acquisti, palpando tessuti da mane a sera. E fu qui che ebbe l’ispirazione (che sarebbe rimasta una chimera se non avesse incontrato il sullodato Galeotti) di mettersi in proprio.
Quello con Sergio fu uno sposalizio felice e fruttifero, da cui sortì il brand tuttora in auge: Armani. Nel giro di pochi anni, il marchio salì al cielo e lì si piazzò nell’empireo senza mai perdere quota. Il decesso, negli anni Ottanta, dell’amico, contrariamente alle previsioni, non provocò disastri se non morali. Lo ripeto. L’azienda, la numero uno in patria e non solo, si irrobustì ulteriormente e raggiunse, e poi mantenne, posizioni eccelse. Segno che Armani era ed è un imprenditore completo, un fuoriclasse a cui l’Italia deve molto perché egli ha saputo darle lustro, incrementandone la fama di maestra di stile e di savoir-vivre.
Giorgio merita gratitudine e applausi. Dal nulla ha creato tutto quel poco o tanto che ci serve per non essere completamente screditati sui mercati che pesano. La genialità di Armani si evince dalle modalità che gli hanno consentito di emergere. Si narra che da bambino indossasse la divisa da balilla con orgoglio per ragioni estetiche: le uniformi infatti sono la base dell’eleganza. La divisa fascista era nera, come il lutto, nulla di più triste: evocava addirittura la morte. Un colore che è la negazione dei colori, dal quale tuttavia egli ha tratto la sua e la nostra fortuna, trasformandolo nel proprio cavallo di battaglia. L’eleganza ha la tinta della notte, quella del buio, che Giorgio ha reinventato per coloro che amano vestirsi e non semplicemente coprirsi. Ditemi voi: uno che dal nero (l’uomo nero, il futuro nero) ricava un trionfo per sé e il suo Paese che altro è se non un demone divino? Buon compleanno, fenomeno.