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 2014  luglio 10 Giovedì calendario

IRONIA E FATALISMO, È IL MOMENTO DELLA VERGOGNA

La notte di Belo Horizonte pareva un girone dantesco: brasiliani ubriachi inneggiano alla Germania, qualcuno azzarda il saluto nazista; spettatori delusi cercano consolazione comprando ragazzini venuti in centro dai quartieri poveri. Ciucche tristi. Energumeni interrogano i passanti: «Sei brasiliano? No? Allora sei della Fifa?». Arriva la polizia a cavallo, poi i blindati dei militari: centinaia di sirene rosse. Un gruppo brucia una bandiera brasiliana, intervengono gli agenti, un tifoso tira una bottiglia, lo portano via: tafferugli per liberarlo, lacrimogeni, 15 arresti. Le radio private aprono i microfoni: va in onda il livore del Paese, che assomiglia a quello di ogni altro: miliardari viziati, vergogna, andate a lavorare, anzi in galera. Altre radio trasmettono musica sacra.
La mattina di Rio, invece, è un lunedì mattina dopo le vacanze e la sbornia. Sarebbe mercoledì, ma il giorno delle partite del Brasile è festivo, e ora si ricomincia. Traffico mostruoso. Da un mese la metropoli viveva come in un incantesimo, sospesa in un mondo senza tempo: molte scuole chiuse nonostante sia inverno, cortei multinazionali e multietnici sulla spiagge, feste a ogni ora, soprattutto dopo le stentate vittorie della Seleçao. Martedì sono arrivati prima un segno celeste, sotto forma di un acquazzone tropicale, poi le sette picconate tedesche del Mineirao, a riportare i brasiliani alla realtà, e a sprofondarli nella depressione. Il Mondiale è finito, riguarda europei e argentini. I giornali hanno titoli definitivi: «Una sconfitta per sempre»; «Una partita che non finirà mai»; «Disonore perenne»; «l’11 settembre del nostro calcio». Ma la reazione non è rabbia e orgoglio; semmai, disillusione e rassegnazione.
Le favelas ammainano i vessilli nazionali con il motto — «ordem e progresso» — palesemente contraddetto dalla confusione e dal degrado circostanti. Anche i taxi hanno tolto le bandierine dal cofano. E a Copacabana sono sparite le magliette verdeoro. La spiaggia è semideserta. Ovunque alghe e altri segni della mareggiata. L’unica partitella la giocano argentini benestanti con la maglietta della nazionale di polo. Davanti ai cancelli della Fifa Fan Fest sono piantate nella sabbia un tripudio di bandiere biancocelesti, come davanti alla tenda di Gengis Khan. I brasiliani restano a casa a tifare invano Olanda; gli unici che si fanno vedere sono i poliziotti in divisa nera, anfibi e giubbotti antiproiettile, che si riparano dal sole sotto una tenda, e i venditori di caipirinha, che hanno tolto la maglietta di Neymar o di David Luiz per mettere quella del Flamengo o del Fluminense, squadre di città; quando però gli argentini cominciano a cantare «qui no salta es de Brasil» si allontanano sdegnati. Uno chiede l’intervento dei poliziotti, i quali spiegano pazienti che irridere i padroni di casa non è reato, soprattutto dopo che hanno preso sette gol. Ci mancava solo l’Argentina in finale al Maracanà. I portieri degli alberghi raccontano che martedì notte a Copacabana ci sono stati scontri tra brasiliani e argentini, ma la televisione ha badato a non mostrarli.
In effetti le tv si occupano d’altro. Un canale sportivo ritrasmette la vittoria del Brasile per 3 -1: nella pallavolo, però, contro l’Italia, ormai punching-ball del pianeta. Un altro segue in diretta il parto di una donna nana, assistita dal marito nano: si vuol scoprire se sarà nano pure il figlio. Ripresa in diretta anche una cerimonia evangelica di benedizione dell’acqua. Sui social invece prevale l’ironia. Girano foto del centravanti di marmo Fred con la scritta «vendesi immobile», e fotomontaggi di Neymar con la gamba di Zuniga conficcata nella schiena. Altri tweet: «Ma era un replay o un altro gol?»; «Già finita? Tutti gli 11 tedeschi avevano diritto a segnare il loro gol!»; «Abbiamo perso la Coppa ma conquistato il Guinness dei primati»; «Finalmente abbiamo elaborato il lutto del 1950»; «E adesso affitti normali e magliette sottocosto!»; «E voi credevate che la cerimonia di apertura fosse stata la cosa più brutta del Mondiale?».
Nella cerimonia d’apertura, il pubblico di San Paolo (città saldamente in mano all’opposizione) aveva mandato più volte a quel paese la Presidenta Dilma Rousseff. Martedì sera Belo Horizonte, dove il partito di governo non è amato, ha ripreso i cori. Dilma aveva annunciato di voler consegnare la Coppa domenica; ma ora che rischia di doverla porgere a Messi forse cambierà programma. C’è una sola buona notizia per lei: nello stadio del disastro era presente il suo principale rivale, Aecio Neves, il qualche si è affrettato a dichiarare che «l’esito del Mondiale non influenzerà le presidenziali». Si vota a ottobre, la campagna elettorale è appena cominciata, e il clima nel Paese non è dei migliori. Sinora le temute proteste non sono ricominciate, ma presto potrebbero ripartire gli scioperi nei trasporti.
Lo spirito del giorno dopo, però, non è la rabbia. Gli episodi di violenza sono rari. Fuori dal ritiro di Teresopoli la polizia allontana sette tifosi venuti a insultare i calciatori. Il tono medio del Paese appare semmai la frustrazione, il fatalismo, il senso di inadeguatezza, la vergogna di sé. È un sentimento presente da sempre nella mappa emotiva del Brasile; ma un decennio di impetuoso sviluppo economico l’aveva rimosso. Presto verranno occasioni di rivincita, non solo nel calcio: il futuro appartiene a popoli giovani e meticci come questo. Ma per la generazione Lula, cresciuta insieme con il proprio Paese, divenuta adulta in una nazione che si scopriva ottimista, il «Mineirazo» è stato la ricaduta in un passato che i vecchi conoscono fin troppo bene. Andandosene il Brasile va sempre da dove è venuto .