Franco Venturini, Corriere della Sera 10/7/2014, 10 luglio 2014
LA SCOMPARSA DEI MEDIATORI
Razzi e missili di Hamas piovono sulle ben protette città israeliane, bombe israeliane piovono sulla Striscia di Gaza controllata da Hamas, e ogni giorno, quasi ogni ora, la spirale che porta a una azione terrestre delle forze di Gerusalemme appare più inarrestabile. Eppure non è trascorso tanto tempo da quel novembre del 2012 in cui la mediazione egiziana e il fiume di sangue già versato consigliarono ai contendenti una tregua priva di garanzie. Perché non riprovarci, perché non arrestare in tempo una tragedia annunciata e conosciuta? Perché in realtà, nel tempo trascorso dal novembre del 2012, è cambiata buona parte del mondo e soprattutto è radicalmente cambiato il Medio Oriente. Diversi sono gli equilibri geopolitici, nuove sono le minacce, e non esistono più mediatori credibili. Per questo, se la guerra terrestre alla fine ci sarà, avrà tutto l’impeto di una guerra «nuova», non di una semplice ripetizione del dramma. E fermarla sarà molto più difficile.
Nel 2012 la mediazione egiziana usufruì del rapporto privilegiato tra Hamas e i Fratelli musulmani del Cairo. Ma oggi, con i Fratelli in galera e i generali al potere, sono credibili i buoni uffici che pure l’Egitto tenta di offrire alle parti?
Dietro gli egiziani, comunque, c’era sempre stata l’America e tutti lo sapevano. Ma quale vera influenza ha oggi l’America di Obama nella regione mediorientale e tra israeliani e palestinesi in particolare? La spola screditante di Kerry, il convincimento della Casa Bianca che un accordo debba essere deciso dalle parti con la sola assistenza diplomatica degli Usa, le voglie neo-isolazioniste dell’opinione statunitense, tutto contribuisce a ridurre in maniera consistente il peso di Washington.
Ai capi di Hamas, che è sempre stata un ombrello di diverse organizzazioni estremiste, restano soltanto gli aiuti finanziari dal Qatar. Si vede in queste ore che malgrado il suo isolamento ha ricevuto missili più moderni e a più lunga gittata, provenienti forse dall’Iran, ma di sicuro non attraverso la vecchia rotta siriana in fiamme da tre anni. L’Egitto è diventato nemico, Damasco lotta per sopravvivere, Hezbollah è impegnato a sostenere Assad, con i tagliagole dell’Isis si potrebbe parlare ma il loro Califfato non è ancora maturo. Davvero stupisce che Hamas abbia tentato un governo di unione con il frustrato Mahmoud Abbas e la Cisgiordania, che le divisioni interne si siano moltiplicate e che la violenza sia riesplosa, prima con il sequestro e l’uccisione dei tre studenti israeliani cui ha fatto da contraltare l’orrendo assassinio di un adolescente palestinese, poi con la ripresa dei lanci di razzi e missili contro Israele?
E poi c’è Israele, appunto. Irritato per l’atteggiamento occidentale verso l’Iran. Disorientato e anche impaurito dagli sconvolgimenti che rischiano di creare roccaforti jihadiste in Siria e in Iraq mentre anche la Giordania è vicina all’esplosione. Deciso ad escludere ogni dialogo con un governo palestinese che comprendesse Hamas (la cui leadership, è giusto ricordarlo, continua a rifiutare ogni riconoscimento dello Stato ebraico). Tentato in definitiva di dare il colpo di grazia al nemico in difficoltà, ma più insicuro di altre volte in un contesto regionale che non lo favorisce.
Troppe debolezze perché non ci sia una guerra.