Maurizio Molinari, La Stampa 10/7/2014, 10 luglio 2014
UNA TELEFONATA, POI L’INFERNO
Sono passate da poco le 9 del mattino quando una bomba da mezza tonnellata demolisce a Nord di Gaza City la casa di un comandante di Hamas. La terra trema forte. Al suo posto resta una voragine di terra, decine di persone si avvicinano ai bordi, arriva l’ambulanza della Mezzaluna rossa qatariota e un secondo boato, poco distante, scuote l’aria. Questa volta l’esplosione è più contenuta. Un sibilo dal cielo, botto secco, poco fumo. L’obiettivo è Abdullah Dyfallah, colonnello della Jihad islamica. Sono i suoni che arrivano dal cielo a descrivere «Protective Edge», l’operazione militare di Israele contro Hamas.
Per comprendere il linguaggio della guerra aerea seguiamo le ambulanze che cercano ovunque morti e feriti. Quando l’esplosione scuote il terreno viene da un F-16 e l’obiettivo è un tunnel, un bunker, una rampa di lanciarazzi, un campo di addestramento, un deposito di armi o, come sta avvenendo sempre più spesso nelle ultime 12 ore, la casa di un comandante di Hamas. Edifici privati e strutture militari vengono polverizzate dalle esplosioni. Non resta nulla. La maggioranza degli oltre 560 raid compiuti – per un totale di 400 tonnellate di bombe – sono di questo tipo.
Per i residenti di Gaza costituiscono l’incubo più grande. Non si sente nulla, poi all’improvviso un terremoto di pochi secondi. Avviene verso le 10,30 sulla Nusairat Road, che unisce il Nord e il Sud della Striscia. Prima i jet colpiscono un terreno agricolo adoperato per lanciare razzi, poi una palazzina vicina. In entrambi i casi quando le nuvole nere si sollevano, non c’è più nulla. Come nel caso dell’abitazione di Rael al-Attar, il comandate che rapì il soldato Gilad Shalit. Le ambulanze accorrono ma spesso inutilmente. I miliziani di Hamas vivono da giorni sottoterra, in un cunicolo di tunnel e bunker che si estende per km e protegge i leader.
La roccaforte di Hamas è nel sottosuolo. In superficie sono rimasti i civili e qualche contingente di poliziotti. Più impegno per barellieri, dottori e infermieri in divisa arancione viene dalle bombe che sibilano: sono piccole e mirano a individui. È così che viene eliminato Dyfallah come il giorno prima era avvenuto per Mohamed Shaaban, capo dei commandos della Marina. I droni sono ovunque. Il ronzio dei motori accompagna ogni istante della giornata. Da Khan Yunis a Jabalya, da Gaza a Rafiah non c’è angolo della Striscia dove il rumore costante del drone non arrivi. È il suono della guerra. E quando diventa più vicino, anticipa la bomba che a volte uccide un miliziano ma altre investe i civili.
Taisir Aiash, 48 anni, ha visto il figlio Mohammed, 18 anni, bersagliato dalle schegge sprigionatesi dai missili lanciati contro due obiettivi che descrive così: «Il padre aveva 60 anni, il figlio 31, per spazzarli via hanno colpito quattro volte in pochi minuti, mio figlio era lì per caso ed ora è in fin di vita». A Khan Yunis ci sono le rovine della palazzina dove martedì sono stati uccisi 7 civili ed altri 25 sono rimasti feriti. Davanti alle pareti sventrate della sua casa Ahmad Kwara, 57 anni, racconta quanto avvenuto: «Gli israeliani hanno telefonato al cellulare di mio genero, gli hanno detto che entro due minuti avrebbero colpito, ci siamo precipitati fuori ma i vicini sono accorsi, si sono messi sul tetto convinti che gli aerei non avrebbero colpito, facendo l’errore più grande ed erano molti, poteva essere una carneficina».
In fondo alla strada sterrata le famiglie delle vittime ultimano la «tenda del lutto» per ricevere le visite di condoglianze. Sono episodi che si ripetono in più luoghi perché i morti si moltiplicano: l’ospedale di Gaza parla di 52 vittime civili (450 i feriti) a cui bisogna aggiungere il bilancio di Hamas, che tace sulle perdite avute. Passate le 12 i portavoce delle altre organizzazioni palestinesi si ritrovano nell’ospedale, considerato un luogo sicuro, ed è mentre parlano con le tv che sul cielo sfreccia una raffica di razzi. «Vanno verso Tel Aviv» grida d’istinto la gente in strada. I poliziotti di Hamas sollevano i kalashnikov verso l’alto: «Andate ad uccidere gli ebrei».
I razzi vengono posizionati in luoghi sempre diversi, protetti, e sono collegati a timer che li fanno partire senza esporre i miliziani al rischio di essere colpiti. Hanno code di fuoco e lasciano nel cielo scie bianche. Piovono a centinaia sulle città israeliane - 180 solo nella giornata di ieri - protette dal sistema anti-missile Iron Dome che finora ha intercettato il 90 per cento di quelli più pericolosi. Ma la sorpresa di Hamas è nella capacità di colpire a lunga distanza: fino a Cesarea e alla periferia di Haifa, a 120 km dalla Striscia. L’obiettivo è riuscire in qualcosa che neanche gli Hezbollah hanno saputo finora fare: portare la morte a Tel Aviv o colpire la centrale nucleare di Dimona, presa di mira già ieri.
In una Gaza deserta a causa di guerra e Ramadan la soglia del pomeriggio indica l’intensificazione del conflitto su entrambi i fronti, in un crescendo che raggiunge il picco nelle ore notturne. È il momento in cui la Marina israeliana prende il comando delle operazioni. I colpi si susseguono a ritmi rapidi e chi abita a Gaza riconosce che vengono dal mare perché a distinguerli è una doppia esplosione: il colpo di partenza in lontananza e, attimi dopo, il boato all’arrivo.
È la prima volta che Israele ricorre in maniera massiccia alla Marina - ha eseguito la metà dei raid - e ciò rientra nella strategia di «graduale intensificazione» ordinata dal premier Benjamin Netanyahu al capo di Stato Maggiore Benny Gantz. Un altro tassello sono le bombe anti-bunker, mirano ai tunnel lungo il confine per scongiurare infiltrazioni. La zona di frontiera ad alto rischio: entrambi colpiscono a ripetizione. E poi, a ridosso della Striscia, ci sono i blindati e soldati che continuano ad affluire perché, come assicura il presidente Shimon Peres, «l’attacco di terra ci sarà se i razzi non cesseranno».