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 2014  luglio 10 Giovedì calendario

DA EISENHOWER A NIXON, TUTTE LE VENDETTE DELLA STORIA

Negli ultimi mesi sul trono degli Stati Uniti d’America alle spalle dei presidenti si alza, come presto comincerà a sentire anche Barack Obama, l’ombra di un angelo vendicatore, l’ala della Storia. Non sono più le elezioni, alle quali non parteciperanno mai più, ad agitarli; le leggi e le riforme che il Parlamento gli boccerà sapendo che loro sono ormai “anatre zoppe” incapaci di volare, né le ricchezze, che i diritti sulle memorie e gli ingaggi per discorsi e le donazioni, garantiranno a vita. È la domanda che Richard Nixon, tra un sorso e l’altro di bourbon, rivolse nelle ultime ore della sua agonia politica a Kissinger, Herr Doktor in storia: «Henry, come sarò giudicato fra trent’anni?».
Ancora molto male, nel caso di “Tricky Dicky”, di Riccardino il baro, che resta relegato nei giudizi dei posteri fra i quarantaquattro presidenti americani da George Washington a Barack Obama al trentaquattresimo posto, lo stesso dove era quando fu espulso dalla Casa Bianca. Ma non per tutti l’angelo della Storia è così crudele. Ci sono stati presidenti, come Dwight “Ike” Eisenhower, volati da scarsa considerazione all’ottavo posto oggi, a bocce ferme. O altri come Harry Truman, impopolare al punto di essere quasi esautorato dall’avversario Dewey nel 1948, essere oggi addirittura più rimpianto di John F. Kennedy.
Popolarità in servizio e giudizi della storia sono indici troppo disomogenei fra di loro per misurare la traiettoria del futuro sul presente. Nessuno, da 150 anni, insidia la primazia inossidabile di Abramo Lincoln, ma si tende a dimenticare che l’odio per lui in vita aveva dilaniato l’Unione e armato la mano dell’assassino. Kennedy, venerato sull’altare della leggenda di Camelot, era talmente in ansia per la propria rielezione nel 1964 da aver voluto sfidare a caro prezzo l’odio che il Texas covava per lui. E solo i mediocri di buone intenzioni e modesti successi, come Jimmy Carter, galleggiano senza infamia e senza lode fra i rimpianti e il rifiuto.
Proclamare un Presidente in carica come il migliore o il peggiore della storia è un esercizio futile e gratuito, un giochetto da sondaggisti annoiati, come assegnare voti a giocatori mentre la partita è in corso. Per alcuni, la popolarità può dissolversi inesorabilmente, come accadde al trionfatore della Guerra Civile, il generale Ulysses Grant, assurto alla Casa Bianca dietro la gloria dei suoi moschetti vittoriosi, è oggi giudicato fra i dieci peggiori capi di Stato americani per la sua indifferenza al pozzo di corruzione che si era spalancato sotto i suoi stivali e per il famigerato “Ordine di Servizio n.11” con il quale aveva imposto l’epurazione di tutti gli ebrei dalle forze armate. Le decisioni che i Presidenti compiono mentre governano determinano conseguenze che soltanto nel tempo possono essere giudicate. L’Obamacare, la nuova legge sull’assicurazione sanitaria considerata dai repubblicani come un sacrilegio, è vista con la stessa rabbia idrofoba che circondò il New Deal Rooseveltiano negli anni ‘30, mentre oggi FDR è stabilmente fra i primi tre nel consenso postumo e il New Deal salvò una nazione. Nessuno aveva, o avrebbe mai più, toccato quel 90 per cento di favori plebiscitari che avvolsero George W. Bush quando parlò dalla rovine ancora calde del World Trade Center. Ora che gli effetti di quella “Guerra al Terrore” sono visibili soltanto un americano su tre ne sente la mancanza. Il vento cambia rapidamente, come suo padre scoprì nel 1992, perdendo un’elezione contro il semisconosciuto Bill Clinton dopo avere superato, con la liberazione del Kuwait soltanto un anno prima, il 70% negli indici di approvazione. L’esatto opposto della sorte di Ronald Reagan, tanto aborrito all’inizio della sua traiettoria presidenziale quanto amato alla fine dell’ottavo anno.
L’economia, naturalmente, è sempre la zavorra o il carburante che appesantisce o fa volare un Presidente quando è al timone, perché neppure la complessità di una nazione che produce 16 mila e 500 miliardi annui sfugge alla legge del «piove governo ladro». La permanente impopolarità di oscuri personaggi come John Tyler, eletto nel 1841 sull’onda dell’ennesimo crack finanziario, viene dalla percezione che non abbiano
fatto abbastanza per far tornare il sereno e Tyler si vide appicciccato il soprannome permanente di His Accidency , Sua Accidenza. Non fu certamente tutta colpa di Herbert Hoover se Wall Street sprofondò nel 1929 ma la sua infelice frase, «la prosperità è dietro l’angolo», lo ha condannato all’imperituro dileggio della Storia.
L’incertezza, e la non prevedibilità del giudizio futuro consumano gli ultimi mesi dei Presidenti alla ricerca disperata di una legacy, un’eredità permanente. Bush il Giovane, dopo il disastro della “democrazia da esportare”, tentò la privatizzazione delle pensioni pubbliche, essendo respinto brutalmente. E oggi, senza eredità, si dedica a dipingere orrendi cagnolini e leader politici stranieri. Clinton ha la sua ultima missione da compiere, spingere la moglie su quella poltrona che fu sua e saldare definitivamente il debito politico con lei. Carter segava e limava sedie, aiutando a costruire case per i senza tetto e il vecchio, irriducibile Bush si lancia, per il novantesimo compleanno, pur infermo, con il paracadute da un aereo, imbragato a un istruttore.
Obama coltiva il sogno di essere colui che risolverà il problema vitale dell’America futura, non la Borsa, non il debito, non il Pil, ma l’immigrazione. Quello sarebbe il monumento più solenne al primo figlio di immigrato africano, ma le elezioni parlamentari di novembre oscurano le speranza della grande riforma su naturalizzazione e immigrazione. L’odio sottopelle dell’America contro di lui riesploderà dopo la sua uscita dalla Casa Bianca. E lui non potrà neppure consolarsi guardando, come fece Hoover, la più sensazionale opera di ingegneria idraulica nella storia americana, quella Diga Hoover che ha dissetato e popolato i deserti del Lontano West.