Lucio Caracciolo, la Repubblica 10/7/2014, 10 luglio 2014
LA SPIRALE INFINITA NEL CAOS MEDIORIENTALE
Parrebbe la solita storia. Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse; aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili; segue spedizione punitiva di Tsahal, stivali per terra nella Striscia. Salvo rientro alle basi entro un paio di settimane. Tutti pronti a ricominciare dopo congruo intervallo.
Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio. È cambiato il contesto. E stanno rapidamente mutando i rapporti di forza all’interno delle élite dirigenti (si fa per dire) palestinesi e della leadership israeliana.
Il contesto prima di tutto. Il Grande Medio Oriente si sta disintegrando. Dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua. Le “primavere arabe” e le controrivoluzioni di marca saudita non hanno finora prodotto nuovi equilibri, ma guerre, miseria, precarietà. Valgano da paradigmi di questa Caoslandia il golpe egiziano con tentativo tuttora in corso di annegare nel sangue la Fratellanza musulmana; la disintegrazione della Libia; il massacro permanente sulle macerie della Siria; la mai spenta guerra civile in Iraq che in ultimo ha visto riemergere le tribù sunnite e i vedovi di Saddam, insieme ai jihadisti dell’Isis, inventori dell’improbabile “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi. Sullo sfondo il rischio che anche la Giordania, battuta da cotante onde sismiche, finisca per crollare.
Infine i tre massimi punti interrogativi: quanto e come potrà tenere l’Arabia Saudita, che stenta a riprendere il controllo dei “suoi” jihadisti e altri agenti scagliati contro il regime di al-Assad e gli sciiti iracheni di al-Maliki - oltre che dediti a liquidare i Fratelli musulmani dovunque siano - alla vigilia di una delicatissima successione al trono? Quale fine farà il disegno dell’Iran – o di parte dei suoi leader – di rientrare a pieno titolo nella partita internazionale sacrificando le proprie ambizioni nucleari sull’altare di un accordo con gli Stati Uniti? Per conseguenza: Obama vorrà portare fino in fondo il suo ritiro dal Medio Oriente, o sarà costretto a smentirsi per non perdere quel che resta della credibilità americana nella regione e nel mondo?
Nel campo palestinese, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale. Abu Mazen si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani. Ma la pax cisgiordana degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio di tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite. In questa vicenda è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso.
L’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione. A compiere quel crimine sono probabilmente stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale. Una scheggia, non un referente militare della peraltro divisa leadership di Gaza. La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. Spirale infinita, ma non uguale a se stessa. A ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso. La crisi potrà essere sedata, magari a lungo. Non risolta.
Fino a ieri Netanyahu non sembrava preoccupato da tale deriva. Anzi, nel foro interno la salutava in quanto conferma dell’inaffidabilità dei “terroristi” della Striscia appena riciclati come uomini di “governo” nel patetico abbraccio con Abu Mazen e con ciò che residua del Fatah. Oggi il primo ministro israeliano rischia di fare i conti con gli effetti imprevisti del machiavellismo con cui lui, come i suoi predecessori, ha pensato di chiudere la partita palestinese giocandone le fazioni una contro l’altra. Dopo aver cercato il basso profilo nella rappresaglia contro Hamas, la pressione dell’opinione pubblica, angosciata dalla continua pioggia di razzi, lo sta spingendo ad alzare il tiro. L’estrema destra lo accusa di passività, la coalizione di governo perde pezzi (Avigdor Lieberman) e il suo aspirante successore, Naftali Bennett, affila le armi. Risultato: quarantamila riservisti sono mobilitati e una nuova campagna di terra dentro Gaza sembra imminente.
Con quale obiettivo? Una soluzione radicale dovrebbe prevedere la rioccupazione della Striscia. Impossibile senza un bagno di sangue, con perdite considerevoli anche fra i soldati israeliani. Eppoi, l’ultima cosa che Gerusalemme vuole è riaccollarsi la responsabilità di quell’inferno da cui Sharon seppe smarcarsi quasi dieci anni fa.
La storia non si ripete. Massimo, fa rima. E illude. Tutti i contendenti pensano di recitare un copione scritto. Anche volendo, non possono. Dentro e intorno a casa, tutti hanno preso a correre all’impazzata. Verso dove, nessuno sa. Meno che mai quelli che pensano di saperlo.