Giorgio Lunghini, il manifesto 9/7/2014, 9 luglio 2014
L’EVEREST DI QUEL 3%
Quali siano i rapporti tra scelte di politica economica e teorie economiche è questione di grande interesse politico e culturale, sopratutto quando la norma non ha nessun fondamento. È questo il caso del rapporto tra deficit pubblico e Pil: «Fu una scelta casuale, senza nessun ragionamento scientifico». Lo ammette candidamente, in una intervista alla Repubblica dell’8 luglio 2014, un tale Guy Abeille, che avrebbe inventato la regola del 3%. Riprendo qui le sue risposte:
«Quando François Mitterrand venne eletto, nel 1981, scoprimmo che il deficit lasciato da Valery Giscard d’Estaing per l’anno in corso non era di 29 ma di 50 miliardi di franchi. Avevamo avanti uno spauracchio: superare 100 miliardi di deficit. Mitterrand chiese all’ufficio in cui lavoravo di trovare una regola per bloccare questa deriva. Avevamo pensato in termini assoluti di stabilire come soglia massima 100 miliardi di franchi. Ma era un limite inattendibile, quindi decidemmo di dare il valore relativo rispetto al Prodotto interno lordo, che all’epoca era di 3.300 miliardi. Da qui il fatidico 3%.
Ma Laurent Fabius, allora premier, anziché dare la cifra parlò di un deficit pari al 2,6% del Pil. Faceva molta meno impressione. Così è cominciato tutto. E’ stato Jean-Claude Trichet a proporre questa norma durante i negoziati per il Trattato di Maastricht. Per paradosso, la Germania ha adottato la norma del 3% di deficit sul Pil fino a farne uno dei punti centrali del Patto di Stabilità. Trovo divertente che questa regola nata quasi per caso e oggi imposta dai tedeschi sia nata proprio in Francia. Dovevamo fare in fretta, il 3% è venuto fuori in un’ora, una sera del 1981. Immaginavo che ci sarebbero stati degli studi più approfonditi, in particolare quando il parametro è stato esteso all’Europa. E invece il 3% rimane ancora oggi intoccabile, come una Trinità. Mi fa pensare a Edmund Hillary che quando gli chiesero perché aveva scalato l’Everest rispose: «Because it’s there».
Da quella sera del 1981 in cui il 3% è uscito fuori un po’ per caso, è diventato parte del paesaggio delle nostre vite. Nessuno più che si domanda perché. Come una montagna da scalare, semplicemente perché è lì».
Uno studio approndito c’è poi stato, quando Luigi Pasinetti, economista di reputazione internazionale, nel 1998 pubblica sul Cambridge Journal of Economics un articolo dal titolo The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht ‘parameter’. Articolo nel quale si dimostra, matematicamente, che entro i confini della finanza pubblica sostenibile (in termini di rapporto tra deficit e Pil e tra debito pubblico e Pil, dato un certo tasso di crescita del Pil), i “valori di riferimento” stabiliti con il trattato di Maastrachit (60% per il rapporto tra debito pubblico e Pil e 3% per il rapporto tra deficit e Pil), costituiscono uno soltanto tra gli infiniti punti compresi nell’area della sostenibilità.
Di qui venivano allora, e potrebbero venire per l’oggi, molte scelte politiche teoricamente ben fondate. Però l’articolo di Pasinetti l’hanno letto soltanto alcuni economisti studiosi e i pochi politici studiosi, uno in particolare. La questione dei rapporti tra politiche e teorie si può dunque condensare in un aforisma di Alberto Arbasino: il sonno della ragione produce ministri.