Otello Lupacchini, Il Tempo 6/7/2014, 6 luglio 2014
IL PITTORE DELLA BANDACCIA CHE S’INVENTO’ IL VOLANTINO BR
Nella mattinata del 18 aprile 1978, in seguito ad una telefonata anonima, un redattore del quotidiano Il Messaggero rinviene in un cestino per rifiuti, in piazza Belli, un comunicato delle Brigate Rosse, nel quale si afferma che la salma di Aldo Moro giace "impantanata" nei fondali del Lago della Duchessa, in località Cartore di Rieti. La comunicazione si rivela ben presto non veritiera: il lago della Duchessa è gelato, il manto nevoso che ne ricopre la superficie non segnato da orme; l’onorevole Moro è ancora vivo e le Brigate Rosse, quasi immediatamente, ne negano l’autenticità, considerandolo una «provocazione del potere». L’interpretazione più attendibile del falso "comunicato n. 7" del "Lago della Duchessa" è quella che dà a caldo la signora Moro: «Una prova generale per vedere come avrebbe reagito l’opinione pubblica», all’uccisione del prigioniero.
Forze politiche e Brigate Rosse maturano, immediatamente, la consapevolezza che una forza sconosciuta è in grado d’influire sui successivi sviluppi del sequestro del Presidente della Democrazia Cristiana. Tragica è l’accelerazione che agli avvenimenti imprime l’incertezza creata ad arte. Per un mese non è riuscito al governo e alla stampa, ottenere il silenzio dello statista sequestrato, pur dipinto come plagiato, ed ecco, invece, che questo riesce in un sol giorno: dal 18 aprile sino al 9 maggio, Aldo Moro non sarà più in grado di svolgere quella funzione di mediatore tra i terroristi ed il governo che s’era in precedenza ritagliata e vede l’iniziativa passare alle Brigate Rosse, le quali si schiantano, tuttavia, contro il muro della fermezza.
A confezionare il falso "comunicato n. 7" è stato Antonio Giuseppe Chichiarelli, oscuro ed anonimo pittore falsario della malavita romana, la cui specializzazione lo ha predestinato a mettersi al soldo di apparati istituzionali devianti: sarà lui a stilare, il 20 maggio 1978, il "comunicato in codice n. 1", nel quale si fa riferimento, tra l’altro, alle operazioni poliziesche condotte in via Gradoli ed in località lago della Duchessa; sempre lui, il 14 aprile 1979, abbandonerà in un taxi un borsello contenente: «Una pistola Beretta calibro 9 con matricola limata; un caricatore; 11 pallottole 7,65 e una di calibro maggiore; una testina rotante Ibm di corpo 12; un mazzo di nove chiavi; due cubi flash; un pacchetto di fazzoletti di carta di marca Paloma; una cartina autostradale della zona comprendente il lago di Vico, Amatrice e il lago della Duchessa; una bustina con tre piccole pillole bianche; alcuni fogli dell’elenco telefonico di Roma con i numeri dei centralini dei ministeri; una patente di guida contraffatta intestata a Luciano Grossetti; un volantino falso-brigatista che inizia con la frase "Attuare proseguimento logica dell’annientamento"; un frammento del biglietto del traghetto Messina-Villa San Giovanni; il manoscritto di una bozza di discussione politica o di un documento teorico; quattro fotocopie di schede dattiloscritte stese in un linguaggio simile a quello della polizia riguardanti rispettivamente l’omicidio di Pecorelli (...), un’azione ai danni del Procuratore della Repubblica Achille Gallucci, un progetto di rapimento dell’avvocato Prisco, il progetto dell’annientamento della scorta del presidente della Camera, Pietro Ingrao»; il 17 aprile 1979, con una telefonata al quotidiano Vita Sera farà rinvenire, all’interno di una cabina telefonica, altro materiale chiaramente connesso a quello contenuto nel borsello fatto ritrovare tre giorni prima, a reiterazione del messaggio precedente; il 17 novembre 1980, farà rinvenire ancora le quattro schede già contenute nel borsello abbandonato sul taxi e quella intestata a Carmine Pecorelli recherà un’annotazione autografa: «Sereno Freato!», unitamente a munizioni calibro 7,62.
Seguiranno quattro anni di silenzio, poi, il 24 marzo 1984 alle 6:30 del mattino, quattro uomini rapineranno il deposito valori della società Brink’s Securmark, in via Aurelia a Roma, con un bottino, approssimativamente, di 35 miliardi di vecchie lire. L’operazione inizia la sera precedente, quando la guardia giurata Franco Parsi, in servizio presso la Brink’s, mentre si accinge a far rientro a casa, è avvicinato, in garage, da quattro individui armati, i quali, si qualificano come agenti della Digos esibendo tesserini di riconoscimento: l’accusa che gli rivolgono è di detenere un grosso quantitativo di droga, di qui l’asserita necessità di perquisire il suo domicilio; una volta nell’abitazione del malcapitato, i quattro si dichiarano militanti delle Brigate Rosse e svelano l’intenzione di prelevare il denaro dal caveau della Banca, definita da colui che sembrava il capo «bunker di Stato di Sindona». A rapina consumata, intorno alle ore diciotto, una telefonata anonima a L’Unità , rivendica alle Brigate Rosse l’«esproprio proletario» alla "banca sindoniana". I rilievi della polizia scientifica consentono di sequestrare una bomba Energa da esercitazione, un involucro contenente polvere pirica colorante, sette proiettili calibro 7,62 Nato per mitragliatrice, «volutamente buttati a terra dal capo e non persi». Il 24 marzo 1984, un redattore del quotidiano Il Messaggero riceverà una telefonata, nel corso della quale un sedicente portavoce delle Brigate Rosse, rivela l’esistenza di materiale definito "interessante", occultato nel cestino dei rifiuti, sito nei pressi della statua del Belli: tra i documenti fatti così rinvenire vi sono alcune distinte e rimesse di fondi effettuate da vari istituti di credito alla Brink’s Securmark proprio nella giornata antecedente la rapina, ed asportate con i plichi contenenti i valori.
Il ritrovamento, apparentemente casuale, nell’aprile del 1979, del borsello contenente oggetti che alludono, collegandoli fra loro, all’omicidio Pecorelli, al sequestro Moro e al depistaggio del Lago della Duchessa, e il fatto che la rapina alla Brink’s Securmark venga rivendicata, due giorni dopo il suo compimento, con un "pacchetto", il cui contenuto chiaramente allude a quello del borsello fatto ritrovare cinque anni prima, prova che si tratta, in entrambi i casi, d’interventi depistanti le indagini sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, sull’omicidio di Mino Pecorelli e su quello del colonnello dei carabinieri Antonio Varisco.
Antonio Chichiarelli passerà dall’iniziale paura del delinquente che sa di avere osato troppo a un’euforia che in breve diverrà un autentico delirio di onnipotenza: straparla delle sue attività passate e investirà parte della somma ingentissima rapinata, affidandosi ai servigi di un commercialista «più volte ricoverato per etilismo».
Trascorreranno sei mesi e quattro giorni prima che questo Poltergeist, valutati i pro e i contro, fatto scomparire qualsiasi elemento documentale utilizzato per redigere i comunicati depistanti, decida di sventare a tempo il potenziale pericolo rappresentato dal falsario reso euforico dal successo ottenuto e lo fa nell’unico modo che i centri di potere deviati conoscono in questi casi: lo condanna a morte. La sentenza verrà eseguita alle ore due e quarantacinque del 28 settembre 1984: Antonio Giuseppe Chichiarelli e la convivente Cristina Cirilli vengono massacrati da numerosi proiettili calibro 6,35.