Anna Momigliano, Rivistastudio.com 9/7/2014, 9 luglio 2014
TYRANT
«È arrivato il momento in cui la Tv americana deve avere una serie complessa e ben costruita sul Medio Oriente. Peccato che Tyrant non sia quello show». Il commento di James Poniewozik, critico televisivo di Time magazine, la dice lunga sull’ultima serie targata FX e sul modo in cui viene recepita, da un punto di vista estetico e politico, negli Stati Uniti.
Prima di tutto, ecco di cosa stiamo parlando: Tyrant è una fiction, a metà strada tra l’azione e il family drama, ambientata in un paese arabo immaginario e liberamente ispirata alle vicende personali di Bashar al-Assad, il dittatore siriano da diversi anni al centro delle cronache internazionali. Il creatore, dettaglio non da poco, è l’israeliano Gideon Raff, che fu la mente dietro Hatufim, la serie israeliana da cui è nata Homeland. Il cast include l’attore britannico Adam Rayner nelle vesti del protagonista e la canadese Jennifer Finnigan. che una parte del pubblico italiano forse riconoscerà come protagonista Close to Home – Giustizia ad ogni costo che ogni tanto va in onda su Rai2, nel ruolo della sua moglie americana. Lo show ha debuttato lo scorso 24 giugno: mentre scriviamo in America sta andando in onda la terza puntata, noi abbiamo fatto in tempo a vederne due.
La storia ruota attorno a Bassam, figlio di un tiranno di un paese immaginario mediorientale, che da tempo ha deciso di cambiare vita e rompere con la famiglia d’origine: vive negli Stati Uniti, dove esercita la professione di pediatra, vive in una classica casa della suburbia con una moglie bionda e due figli adolescenti ribelli. Bassam, che è talmente americanizzato da farsi chiamare “Barry”, non torna al suo paese d’origine da 19 anni, ma la consorte – la classica mogliettina dal telefilm che ti dice cose tipo «perché non mi racconti mai del tuo passato» e «devi affrontare i tuoi demoni» – lo convince a portarci tutta la famiglia in occasione di un nipote. [***attenzione: mild spoilers***] Una volta atterrata nel paese arabo immaginario, la famigliola americana si trova invischiata in un regime brutale, fatto di esecuzioni sommarie, autobomba che esplodono un po’ ovunque, torture, mutilazioni gratuite, e un sacco di violenza sessuale (si contano tre stupri, tre, soltanto nella prima puntata). In tutto questo la mogliettina dagli occhi blu continua a domandargli perché non parla mai del suo passato. Nel corso sempre della prima puntata il padre di Bassam/Barry muore, di morte naturale, e suo fratello viene spedito in ospedale, non vi raccontiamo come. Risultato? Il brillante medico americanizzato, che fosse stato per lui se ne sarebbe stato a casa «a curare bambini privilegiati con l’otite» (una delle poche che valgono, nelle prime due puntate), decide di restare e prendere in mano il business di famiglia.
Le similitudini con la vicenda personale di Assad sono molte. Anche il dittatore siriano viveva in Occidente (Londra, nel suo caso), dove esercitava la professione di medico (oftalmologo, non pediatra) e aveva sposato una bella bionda locale (Asma al-Assad è nata in Inghilterra da genitori siriani, da ragazza si faceva chiamare “Emma”). Come Barry, anche Assad era il secondogenito di un brutale dittatore: gli è succeduto perché il fratello maggiore, Basil, è morto in un misterioso incidente. Lo stesso creatore, Gideon Raff, spiega come gli sia venuta l’idea: «Un giorno stavo guardando la TV nel mio appartamento a Tel Aviv e c’era una notizia su Bashar al-Assad, il presidente della Siria, che aveva fatto uccidere una dozzina di persone in una città chiamata Daraa» [nota: i fatti di Daraa, nel 2011, innescarono una rivolta contro il regime che poi si è trasformata nella guerra civile]. «Tutti dicevano che era una persona terribile, un macellaio, che bisognava sbarazzarsene», prosegue Raff. «E io mi sono ricordato che soltanto qualche anno prima tutti erano felici che un tipo come lui, educato in Occidente, sposato a una donna inglese, avesse sostituito il padre. Mi sono detto: a questo tizio la vecchia vita di Londra deve mancare parecchio. Il passaggio dall’essere lodato da tutti al venire definito un assassino mi affascinava».
Le recensioni, come avrete intuito da quanto anticipato sopra, sono state pessime. Time ha definito Tyrant «una telenovela su una famiglia disfunzionale», condita da «un’iperviolenza». Su A.V.Club Todd VanDerWerff la distrugge: è noiosa, sostiene, un’insulto alla cultura araba e all’intelligenza dei telespettatori. The New Republic, se possibile, ci va giù ancora più pesante: è esattamente così che non si fa una serie su una dittatura araba, scrive Esther Breger, che indica come fattore inappropriato, se non velatamente razzista, che un attore bianco reciti un protagonista arabo (questione molto delicata, per la sensibilità americana, forse anche a causa delle cattive memorie degli show in “blackface” dove bianchi interpretavano neri, beh, in modo molto razzista). E sì che i creatori dello show, proprio per evitare accuse di razzismo, avevano ipotizzava qualche giorno fa Haaretz, alcune delle critiche dipendono dalle differenze culturali che separano la sensibilità dell’autore e quella dei suoi detrattori: Tyrant, che è una creatura di Gideon Raff molto più di quanto non lo fosse Homeland, è uno show israeliano realizzato con un budget da grande rete americana. La correttezza politica non fa parte del codice israeliano. Questo può avere reso Tyrant un prodotto poco in sintonia con le aspettative della critica americana, ma non fa necessariamente di esso uno show razzista. Su Mother Jones, Asawin Suebsaeng lo difende.
Tra le critiche mosse più frequentemente alla serie c’è quella di avere riproposto lo stereotipo, trito e ritrito, degli americani “civilizzati” (Barry e la sua famiglia) che vengono catapultati in un contesto straniero, ergo selvaggio (Medio Oriente = violenza senza freni, sarebbe questo il sottotesto razzista, secondo i detrattori della serie). L’archetipo hollywoodiano, però, prevederebbe che il contesto straniero e selvaggio dove sono catapultati gli americani offra un pretesto per dimostrare la loro superiorità umana e culturale. Non è questo il caso di Tyrant. Semmai, il messaggio pare esattamente il contrario. Già dalle prime due puntate infatti è perfettamente chiaro che il protagonista ha i numeri per diventare il più cinico dei tiranni, non nonostante la sua educazione intellettuale, ma precisamente grazie ad essa. È stato fatto notare che il personaggio di Barry-Bassam, interpretato da un attore occidentale, è molto meno “selvaggio” ed esteticamente sgradevole rispetto al suo fratello maggiore: Jamal, interpretato dall’arabo israeliano Ashraf Barhom, è la classica macchietta del figlio di dittatore dal grilletto facile. Eppure è Bassam, e non Jamal, il più letale dei suoi fratelli.
Il tiranno definitivo è il pediatra dall’accento americano, non l’arabo coi baffi strafatto di cocaina. È un rovesciamento di paradigma. A guardare quello che sta succedendo in Siria, peraltro, verrebbe da pensare che in questo sottotesto, secondo cui i rampolli occidentalizzati dai modi gentili sono più letali dei classici dittatori con la pistola sempre in mano, forse qualcosa di veritiero c’è.