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 2014  luglio 05 Sabato calendario

MAURIZIO DE GIOVANNI: «SONO SCRITTORE PER SCHERZO»

«Si prega di non occupare. Riservato al commissario Ricciardi», avverte il cartello esposto su uno dei tavolini del più celebre bar napoletano. Però si farà un’eccezione per Maurizio de Giovanni, che del commissario è il padre. E, una volta seduti, il cameriere non ha bisogno di aspettare l’ordinazione: “caffè e sfogliatella”, come per quello strano poliziotto degli Anni Trenta che vede i morti. Siamo al Gran Caffè Gambrinus, il salotto liberty tra Chiaia, Palazzo Reale e il San Carlo dove tutto è cominciato nel 2005, quando un tranquillo impiegato di banca 46enne, partecipante a sua insaputa a un concorso di letteratura noir, cercava invano l’ispirazione: “Alcuni colleghi, conoscendo la mia fissazione per la narrativa, mi avevano iscritto, credo per sfottermi, a una gara per giallisti principianti. Avevamo a disposizione 15 ore e 11 primi, in tutto 911 minuti: 911, come il famoso modello della Porsche, casa automobilistica che aveva indetto il premio. Io non avevo la minima idea di che cosa scrivere quando apparve dall’altra parte del vetro una bambina, una zingarella che mi guardava con una bambolina in braccio. Mi fece una boccaccia, e sparì. Un fantasma, pensai, e cominciai di getto a pestare sul Mac per raccontare la storia di un poliziotto che vedeva cose che gli altri non vedevano, come una bimba morta. Quando due giorni dopo mi comunicarono via mail che avevo vinto, risposi che ci doveva essere uno sbaglio.

Invece era vero. Partecipai anche alla finale nazionale, a Firenze. Vinsi anche lì”. Non una Porsche, ma la pubblicazione del suo racconto su L’Europeo: il commissario Ricciardi – l’uomo che conosce il dolore perché ascolta gli ultimi pensieri di chi muore – era nato, ed è oggi il protagonista amatissimo di un ciclo che conta già una lunga serie di indagini (l’ultima nell’appena pubblicato “In fondo al tuo cuore”, Einaudi), schiere di fan in mezzo mondo, fiction in sei puntate in produzione per RaiUno.

Eppure de Giovanni sembra ancora sorpreso da un successo che dopo decine di romanzi e racconti tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, catalano e danese, e un albergo partenopeo che gli ha dedicato una stanza accanto a quelle intitolate a Marilyn, alla Loren e alla Hepburn – non può più essere attribuito all’incantesimo di una piccola gitana: “Il fatto è che io mi considero innanzitutto un lettore. Forse perché resto convinto che le attività che valgono davvero la pena sono quelle fatte da sdraiati”, dice scherzando sulla sua pigrizia (“Mi aiuta il fatto di non essere uno che scrive per il piacere di scrivere, preferisco lo stile asciutto di chi non scrive nella propria lingua, come Agota Kristof”). Però il suo metodo di lavoro tutto sembra, fuorché quello dello “sdraiato” che sostiene di essere: “Venti cartelle al giorno, tutti i giorni. L’anno diviso in due semestri, il primo dedicato al ciclo di Ricciardi, il secondo a quello del commissario Lojacono e dei Bastardi di Pizzofalcone (l’altra serie noir, stavolta contemporanea, nata dalla penna di de Giovanni in omaggio all’87° distretto del suo scrittore-mito Ed McBain, ndr); e Paola, la mia compagna, che fa ogni sera un rigorosissimo editing, al punto che a volte mi sembra di essere il suo ghostwriter. Così completo ogni anno con un libro di vantaggio”.

Alla faccia della pigrizia. Sembra un ritmo alla Simenon.
“Non scherziamo. A parte il fatto che Simenon di cartelle ne riempiva ogni giorno ottanta, qualsiasi frase che contenga insieme il cognome Simenon e il cognome de Giovanni è da considerarsi errata”.

Eppure lei, con Ricciardi e (in modi diversi) con Lojacono, non cerca solo l’autore di un delitto, ma il suo perché. Come Maigret?
“Io però parto sempre dalla vittima, la mia storia comincia da lì. Come nell’ultimo della serie Ricciardi, un professore di ostetricia che precipita dall’ultimo piano del Vecchio Policlinico di Napoli. Solo dopo comincio a chiedermi chi può averlo ucciso, e perché. E come sentimenti quali amore, amicizia, affetto paterno o filiale possano essersi corrotti e infettati fino a diventare il loro opposto. Perché spesso la vittima è più colpevole del suo assassino...”.

Questi romanzi si svolgono sempre nella sua città. Descritta – si tratti della Napoli di ieri o di quella d’oggi – con una minuzia di particolari straordinaria. Qual è il suo segreto?
“Mi possono criticare per le trame, o lo stile. Sulla documentazione, mai. Ho la fortuna di contare su due, chiamiamoli così, “gruppi di lavoro” distinti. Per la Napoli contemporanea dei “bastardi”, una volta decisi storia e snodi, invito a cena tutto lo staff della Questura: gli racconto la trama, e chiedo come si muoverebbero nei casi che racconto, ad esempio la scomparsa di un bambino durante una gita scolastica; e in base ai loro suggerimenti intervengo, cambio, preciso, utilizzo il linguaggio tecnico come nei referti autoptici”.

Un lavoro maniacale. E per la Napoli anni Trenta?
“Ancora più maniacale. Ho due “angeli”: una fidatissima signora di Sorrento che è una maga del web, e una napoletana bibliotecaria a Roma, indispensabili per ricostruire la Napoli primi anni Trenta in cui si muove Ricciardi. Una Napoli che non c’è più, ma che io devo rievocare in ogni minimo dettaglio. L’ultima investigazione di Ricciardi, per dire, si svolge durante la Festa del Carmine del 1932. Per me era decisivo sapere quanto caldo facesse in quell’estate, che cosa succedesse in città in quei giorni, che cosa mangiassero e dove andassero al mare i Napoletani in quel periodo... E se qualche notizia non “torna” col mio racconto, lo cambio. Ricordo che ne “Il giorno dei morti” avevo immaginato che un ragazzino, per poter operare come ladruncolo negli appartamenti, facesse l’apprendista di uno stagnino, un idraulico: non avendo poi trovato notizie sugli stagnini partenopei dell’epoca, lo trasformai in aiutante del saponaro, il rigattiere, categoria su cui l’informazione era più ampia”.

Dal “corpo” della città alla sua anima. Qual è la Napoli di de Giovanni?
“L’unica città sudamericana fuori dal Sud America. Sempre moribonda, e perciò immortale. Sempre sull’orlo dell’abisso, rappresenta l’effimera natura del sublime. Ma è soprattutto una città a compartimenti stagni. A un passo da qui c’è via Toledo: il confine tra due mondi opposti. La città borghese di qua, i Quartieri Spagnoli di là. A Santa Lucia, è lo stesso: di qua i circoli nautici, di là il Pallonetto. Due società che si ignorano. Una che costeggia l’illegalità, l’altra che tiene sempre chiuse le sue finestre. Non so quale sia quella moralmente più accettabile”.

Però, dice qualcuno, nei suoi libri la camorra non c’è mai.
“Credo che la camorra sia uno dei cancri più terribili del nostro tempo, e mi distrugge sapere che sia nata qui. Ma la camorra è una macchina, e non trovo divertente, da scrittore, descrivere il funzionamento di una macchina. Guardiamo ai delitti “comuni”: l’arma è più il coltello che la pistola, e avvengono sempre di più in famiglia. Ai danni di donne, bambini, vecchi. Sempre i più deboli. E la curva dei crimini segue la curva della crisi: forse non c’è un nesso causale diretto, ma vale la pena di interrogarsi sull’influsso tragico della crisi economica su certe categorie sociali. E il noir è oggi in Italia il romanzo sociale per eccellenza”.

E’ nata una scuola?
“Io la chiamo polifonia. Carlotto nel Nordest, Pandiani a Torino, De Cataldo a Roma, Carrisi in Puglia, Camilleri in Sicilia e tanti altri nelle loro rispettive realtà, raccontano come me relazioni sociali e interpersonali, compresa la relazione definitiva, l’omicidio. Perché tutti i legami si spezzano, tranne uno: quello che lega l’assassino alla sua vittima”.

Meno male che a rallegrare l’atmosfera c’è il calcio, la divorante passione per il Napoli: attraverso i suoi palpitanti racconti di epiche partite (gli incantati lettori-tifosi se li passano di mano in mano come fossero reliquie) emerge la sua vena meno cupa e più gioiosa, l’ amore totale e incondizionato per gli azzurri...
“L’unica passione collettiva e non censitaria che ci rimane a Napoli. Ma è anche una grave malattia. Ci ha mai fatto caso? Si chiama tifo”.