Raffaela Carretta, IoDonna 5/7/2014, 5 luglio 2014
SABINA CIUFFINI: «MIKE MI TRASFORMO’ IN UN GADGET»
A casa Ciuffini Rischiatutto non si guardava. Al massimo “vediamo che vestito ha stasera Sabina” si diceva il giovedì, come se attraverso la stoffa della gonna fosse legittimo mostrare interesse per quella cosa così popolare e dunque un po’ disonorevole capitata in famiglia, i quiz tivù di Mike Bongiorno.
«I miei erano colti senza spocchia, ma fortemente innovatori. Il nonno materno era Guglielmo Giannini, fondatore nel dopoguerra del movimento politico dell’Uomo Qualunque. Mamma aveva fatto la giornalista prima di mollare tutto per i tre figli. E papà si era inventato la produzione della pubblicità agli albori di Carosello. Io avevo 18 anni nel ’68. Ero perfetta per l’aria del tempo: magrolina, capelli lunghi con la riga in mezzo, faccia a cuore. A corso Trieste eravamo in due o tre così e facevamo furore. Tutte in maxi cappotto, hot pants, ciglia finte di visone, stivale sadomaso. Tutte vergini».
A 64 anni Sabina Ciuffini è ancora perfetta per la sua generazione di eterne ragazze, con quel tanto di sgualcito e imprevedibile che impedisce di chiamarle signore, un termine aborrito da giovani perché allora definiva eccome le borghesi. Non è solo il corpo a sprigionare quell’essenza, a trattenere quella temperatura, ma anche le parole: addomesticate dall’autoanalisi come forse, per quelle venute dopo, non è successo più e abituate allo spazio pubblico per via della televisione. Perciò non è strano che le tre facce della biografia, la televisiva, l’imprenditrice (proprietaria dell’hotel milanese Antica Locanda di via Solferino la consulenza nella comunicazione) la Ciuffini interessata alle donne, siano confluite in UnaTalks, ispirato al successo internazionale dei Ted Talks: una persona sola che parla sul palco.
Però qui, a raccontare una storia, magari la propria, sono voci femminili. Manager, professioniste, o dipendenti Rai: «Vorrei mettere a disposizione di tutte le italiane, sempre penalizzate nel farsi avanti in pubblico, le tecniche che ho imparato io». Eppure, come si vedrà, non è nella parte visibile della storia che va cercata la capriola capace di spedire punto e a capo la vita, ma in un intreccio più nascosto e tardivo, quando la mappa dell’esplorazione sembra in gran parte compiuta.
La prima svolta è nota, anche se l’occhio interior disegna una scena diversa: «Avevo 19 anni e davanti al mio liceo, lo storico Giulio Cesare di Roma, mi fermò Mike Bongiorno. Cercava una ragazza con la minigonna. Allora nessuna voleva fare la valletta nel mio ambiente dove si parlava di anticoncezionali e aborto. Però Bongiorno disse una parola magica: stipendio. Signorina gliene sto offrendo uno! Mi bloccai. Avevo nelle orecchie la voce di papà: siate indipendenti. Dissi di sì. E con 30 milioni di telespettatori mi trasformai in un gadget».
Sabina apparteneva alle persone, non faceva la diva, era l’accesso popolare a un sogno contraddittorio: la ninfetta ma composta, l’emblema della rivoluzione sessuale ma moderata. «E se Paolo VI ci guardava, dalla mini passavo alla longuette. Avevo il terrore di finire sui giornali, bastava per diventare, se posso dirlo, una puttana. Con autodisciplina imparai una doppia vita. I quiz e i collettivi femministi, Sanremo e la redazione del Male. I miei fidanzamenti erano lunghi. Il ragazzo di turno diventava subito una guardia del corpo: con lui accanto si avvicinava un decimo delle persone. A tratti, come il raffreddore arrivava la botta di narcisismo: la fama ti abitua a guardarti con gli occhi degli altri. E gli altri dovevano essere sempre presenti: avevo paura non solo a dormire, ma anche a stare da sola. Piccoli pedaggi di un’esistenza sul velluto. Poi, a 30 anni è cominciata la vita vera: mi sono sposata». L’incontro ha i segni della premonizione. «Ero in Sardegna con il mio fidanzato e in un gruppo di amici c’era lui, Franco Ceccarelli. Uno sguardo ed è successo, qualcosa che ti attraversa, un colpo di fulmine. Ci siamo amati per due anni, poi è finita, anche se abbiamo resistito altri cinque. E non mi pento di nulla: sono nati i miei due meravigliosi figli, Iacopo e Ilaria. Ma ho cominciato a capire allora che va sempre nella stessa dolorosa maniera: la spinta si indebolisce, e tu non ami abbastanza la felicità che ti dà l’amore per alimentarlo con la dedizione. Noi eravamo troppo viziati per farlo. E poi, lui era un bello, ricco, corteggiato: anche con meno gli uomini ti tradiscono, sempre. È una verità assoluta, facciamocene una ragione. La fine di un matrimonio ha uno strascico insidioso. Non sono più riuscita a crederci. Ci sono stati altri uomini, niente nozze. Però una cosa la so: in quell’unico amore al primo sguardo c’era un’astuzia della natura. Alla luce di quanto è successo dopo, è stato un colpo di fulmine ma biologico: ha salvato i miei figli, generati dalla combinazione giusta».
Ricorrere alla biologia non appartiene a una suggestione sentimentale, o al tentativo di riscrivere la storia con un inchiostro dal colore fatale. Quello che “è successo dopo” somiglia all’irruzione di una nera divinità casuale, qualcosa che arriva da un mondo cieco: nello sfarfallio d’elica del Dna familiare, all’incrocio tra il ramo irlandese e quello veneto risalente ai bisnonni, c’è una possibilità su mille di sprigionare una malattia rara. E quella possibilità si realizza. Colpisce il padre Augusto che se ne va in nove mesi. Si ammala la sorella, poi il fratello. «In vent’anni la mia famiglia è stata sterminata. L’unica risultata sana ero io».
Non è solo l’esposizione al dolore nel paese diverso della malattia. In quei giorni sottratti alla normalità, la normalità si trasforma perché il tempo si autosospende: «Reso immobile da cose più grandi di te. Le ore non passano mai e per questo cominci a notarle, senti al rallentatore il loro scorrere. E realizzi che un giorno porteranno lì, alla morte. Quanto mi rimane? Un pomeriggio feci un calcolo, cercando una misura diversa del tempo a disposizione: ottant’anni di vita media si traducono in mille mesi. Cioè pochissimo». Eppure l’equazione che rimpicciolisce la vita diventa una spinta alla vita. «A 45 anni sapevo che l’unica ricchezza che abbiamo è questo frammento terreno, limitato. La mia indistruttibile salute m’imbarazzava, ma era anche un dono, imponeva un dovere: quello alla felicità. È come una disciplina da apprendere. L’ansia puoi provare a spegnerla. La solitudine impari a viverla amabilmente perché ti piaci di più e se chiudi la porta di casa sei in buona compagnia. La sofferenza d’amore, ovvia come in tutte le storie femminili, diventa tempo inutile. Oggi il mio rapporto con gli uomini è semplice: o rose e fiori, oppure niente. L’amore dev’essere benefico, altrimenti ho altro da fare».