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 2014  luglio 09 Mercoledì calendario

INDONESIA. AL VOTO NEL NOME DEL DITTATORE IL GENERALE SFIDA L’UOMO NUOVO

Giacarta
«Votate per la democrazia! Votate, vi prego, contro il ritorno della dittatura!», urla Jusuf nel suo piccolo megafono, con l’enfasi e la drammaticità di un predicatore, nel traffico convulso che paralizza il centro di Giacarta. Come lui, anonimi e spontanei apostoli della politica, ne vedi parecchi nella capitale indonesiana, spaventati dal fantasma della tirannia che plana sul più grande arcipelago del mondo, alle prese con le sue terze presidenziali dalla fine del regime di Suharto, il despota che fu costretto a ritirarsi nel 1998 dopo aver governato per 32 anni. Nelle 15mila isole che compongono questa repubblica spalmata su tre fusi orari, e che conta il più gran numero di musulmani del pianeta (l’86 per cento dei suoi 245 milioni di abitanti), si sceglie oggi il futuro leader. Due i candidati: uno è l’ex esportatore di mobili Joko Widodo, detto Jokowi, 53 anni, simbolo dell’era democratica e della buona amministrazione, la cui folgorante ascesa politica è cominciata pochi anni fa quando fu nominato sindaco della città di Solo, per diventare, più recentemente, governatore di Giacarta; l’altro, Prabowo Subianto, 62 anni, è un ex generale dall’ombroso passato, genero di Suharto ed esponente della classe politico-militare del Paese, inseguito dalla ripugnante accusa di aver trucidato una ventina di studenti quando comandava i corpi anti-sommossa, accusa mai smentita né rinnegata.
I sondaggi ancora favoriscono Jokowi, ma di poco. Dopo aver raggiunto due mesi fa fino a 30 punti di distacco sul suo rivale, alla vigilia del voto il suo vantaggio s’è ristretto al 3 per cento, per via di una potente quanto capillare campagna mediatica finanziata dai generosi sostenitori dell’ex generale. «Questa elezione è lo scrutinio che segnerà il futuro dell’Indonesia, e spero che ogni tentativo di brogli sia immediatamente denunciato e punito, perché potrebbe provocare la fine della democrazia», sostiene Emir Chairullah, professore di Scienze Politiche alla President University di Giacarta. Quando gli chiediamo se davvero esiste il rischio di un ritorno a un regime totalitario, il professore annuisce. E dice: «Negli anni in cui Subianto capeggiava i corpi speciali, io appartenevo a un’associazione per i diritti umani. Ho quindi sperimentato sulla mia pelle che cosa significa vivere sotto una dittatura. Se Subianto venisse eletto faremmo un salto nel passato e ci ritroveremmo con un Mussolini alla testa dell’Indonesia».
Ma il paragone è calzante solo in parte, poiché a differenza del Duce Subianto è figlio e nipote di banchieri facoltosi, che ricoprirono ruoli di spicco nei primi anni della repubblica. Adesso, grazie al suo ricchissimo fratello, Hashim Djojohadikusumo, che ha sovvenzionato sin dall’inizio la sua scalata al potere, compresa quest’aggressiva e sfarzosa campagna presidenziale, l’ex generale si presenta come figura forte e affidabile, facendo passare per inesperto il suo antagonista.
Jokowi, al contrario, non ha né scheletri né scandali alle sue spalle. Uomo di umili natali, ma diventato un imprenditore di successo, è il volto di una nuova generazione di politici indonesiani, illuminata e perfino sensibile alle ciclopiche sfide ambientaliste che l’attendono, dall’improcrastinabile protezione delle coste, devastate da una pesca scriteriata, a quella delle foreste, accerchiate dalle motoseghe per esportarne i legni più pregiati.
Secondo Rudy Polycarpus, editorialista del Media Indonesia, il vincitore di queste presidenziali sarà costretto ad affrontare immediatamente le grandi, annose emergenze che strangolano l’arcipelago. «La povertà e l’intolleranza etnicoreligiose sono due gravissime piaghe che ancora funestano il Paese, e se non si interviene subito è probabile che assisteremo a gravi sommosse sociali. L’altro flagello che impedisce lo sviluppo e l’ammodernamento dell’Indonesia è la corruzione, che da noi è ubiqua e dilagante, e che abbiamo ereditato dalla potenza coloniale. Infatti, se all’India gli inglesi hanno regalato un’estesa rete ferroviaria e un valido sistema giudiziario, a noi gli olandesi hanno lasciato in eredità soltanto un sistema politico-amministrativo fortemente burocratico e corrotto. Jokowi è in grado di cambiare le cose. O, quanto meno, è l’unico che può provare a farlo».
Come spiegare allora l’ascesa di Subianto? Certo, da navigato politico qual è, l’ex generale ha saputo circondarsi di persone capaci e ha stretto le giuste alleanze, tra cui quelle con i leader dei partiti islamici più radicali, i quali accusano di miscredenza Jokowi, mentre il governatore di Giacarta è soltanto un musulmano moderato, propugnatore di quello “smiling Islam”, Islam sorridente, che tanto piace in Indonesia. Ma c’è dell’altro. Non a caso, sui manifesti che tappezzano la capitale, ma anche i più remoti villaggi del Borneo e della Nuova Guinea, Subianto è ritratto con il tradizionale fez nero in testa. Lo stesso che calzava il dittatore Suharto, al cui mausoleo, nel centro dell’isola di Java, ogni giorno ancora accorrono centinaia di pellegrini per raccogliersi davanti alle spoglie di colui che per l’Indonesia fu un padre della patria, seppur sanguinario, e insieme un re. La rimonta della vecchia guardia è stata orchestrata anche suonando le corde della nostalgia. Perciò il voto di oggi è importante quanto un referendum sull’era democratica.
Pietro Del Re, la Repubblica 9/7/2014