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 2014  luglio 09 Mercoledì calendario

LA PROCESSIONE

Catania
Com’è finita? «Qualche mese fa sono stati tutti assolti in primo grado perché erano già stati condannati per mafia in un altro processo. Ovviamente ci siamo appellati».
Tutti protetti dal Dio mafioso di cui parla don Resca? Questo prete, che ha insegnato filosofia al liceo statale Cutelli, mi mostra la lettera che Benedetto Santapaola gli spedì dal carcere. Cercava di spiegare la bellezza e la forza della sua fede proprio a lui, al più attivo dei preti antimafia: minacciava? «Non credo. Santapaola e anche sua moglie, che un mese prima di essere uccisa mi venne a trovare, erano davvero convinti che Dio fosse dalla loro parte. Ammettevano solo “cattive compagnie” ma pensavano di essere nel giusto con tutti quei santi di cui si circondavano e quell’Agata portata in processione. Risposi alla lettera, ci fu ancora qualche scambio epistolare. Non credo che abbia capito, per lui un prete antimafia è una contraddizione. Non accetta che il torturatore che strappò le mammelle a Sant’Agata fosse un mafioso, stupidamente feroce proprio come è stato lui».
Durante i giorni della festa di Sant’Agata, don Resca, con un piccolo gruppo di preti catanesi, scappa via: «Lascio la città, e non perché la festa popolare non sia bella, a chi piace il genere. Ma perché non è cristiana, è un falso, una patacca come tutte le altre feste religiose del mondo che sono dappertutto le stesse: in India, in Guatemala, in Tibet e a Catania. Insomma voglio dire che non basterebbe rendere tutto legale, ci vorrebbe una chiesa coraggiosa che distinguesse la religiosità dalla fede e dunque cacciasse da lì non solo i devoti mafiosi, ma i preti che sulla vara e sul fercolo raccolgono soldi e candele, mescolano le messe con le scommesse: sull’ora di rientro della santa, su quale candelora arriverà per prima al Borgo, se quella dei macellai o quella dei fruttivendoli…».
Eppure, gli racconto, nel paese di Trecastagni ho visto, ancora lo scorso anno, i devoti di Sant’Alfio, con quegli strani copricapi lunghi che ricordano le suore, leccare per terra e flagellarsi i fianchi. Rivogliono la vista del figlio cieco, sperano nella guarigione della moglie malata di cancro, sognano un trapianto. «Devoti? Quelli sono disperati» dice. Al loro disgraziatissimo posto anche tanti illuministi direbbero “sia lodato il santissimo crocifisso a dispetto dell’inferno”, per sentirsi rispondere in coro: “Sempre sia lodato”. Ma è fede o superstizione? « Ho letto uno studio, che mi è parso rigoroso, secondo cui nel sud d’Italia si pregano solo i santi per ottenere grazie, favori, miracoli, e surrogare la scienza, la medicina, lo Stato. Al primo posto pregano padre Pio e al tredicesimo Gesù Cristo».
E ora parliamo di Adrano, dove il 24 agosto attaccano un ragazzino ad una corda e lo fanno volare (“il volo dell’angelo”) dal castello normanno sino al vecchio municipio, e ricordo bene che una volta, da cronista, mi accorsi che, per calmarlo, gli davano un eccitante. Lì la scenografia comunale prevale anche sull’irrazionale popolare, «e bisogna essere severi quando Dio è ridotto a kitsch senza neppure la grazia scomposta dei tarantolati».
Chiedo al pubblico ministero Fanara come si comportò al processo contro il Dio mafioso l’allora vescovo di Catania Luigi Bommarito: «Negò di sapere che quelli erano mafiosi, disse molti “non ricordo”, molti “non so”, raccontò di avere cresimato il figlio di Santapaola che, va precisato,
allora non era stato ancora condannato, aggiunse che era suo dovere pregare anche per loro…». Leggo i verbali del processo e mi pare davvero una sceneggiatura di Sciascia. Il pm chiede a chi spetta la scelta del capovara: «Io non so se viene nominato dal municipio». Il pm insiste: secondo lei viene nominato dal Comune? «Dico: può essere, non sono mai entrato nei dettagli». Ma i cordoni, la vara non appartengono alla chiesa? «Per modo di dire». È un interrogatorio- duello fulminante e spudorato. E Bommarito — bisognerebbe conoscerlo — ha pure la faccia esagerata di carne e mascelle, sembra quel protagonista dei Beati Paoli che annunzia: «Per entrare devi pronunziare la parola segreta». Ma qual è la parola segreta? «E quello portò l’indice alle labbra nel segno del silenzio: la parola segreta era il silenzio». Il vescovo sembra risvegliarsi solo quando parla del cerimoniere della festa, che è il commendatore Luigi Maina, «l’eterno Maina!» esclama cercando la complicità divertita che il pm non gli concede. Il vescovo, nel suo codice muto, indica in Maina il vero vescovo, scarica sul Comune, ed è irridente perché Maina, che oggi ha 84 anni, è il dolce&gabbana di Sant’Agata. «Si occupa di lei da quando è nato» dice il sindaco Bianco, «vive per Sant’Agata, si identifica, nel bene e nel male, con questa festa affascinante ed emozionante». Al sindaco, che è laico e cerca di imporre la legalità, piace moltissimo l’Agata che affascinò Verga e De Roberto, il rito con la coda del diavolo, «la santa femminista e marinara» secondo lo storico Tino Vittorio, perché la vara è “a varca” la barca, il velo è la vela, il cordone è la corda dell’alaggio, il saio bianco è la tunica dei sacerdoti di Iside… Quasi tutte le città siciliane hanno sante patrone: Agata, Rosalia, Lucia, Barbara, Venera...
Dunque per cinque giorni la dirty city esala il fumo nero dell’arrosto di cavallo. Via Plebiscito, la pescheria, piazza Duomo, piazza Università, via Etnea, piazza Stesicoro, piazza Borgo sono come crateri dell’Etna, la geografia urbana di un inferno vivo dove passano le tredici candelore che qui non si inchinano ma “si annacano” e non solo per omaggiare le case di rispetto ma anche per esigere il pagamento annuale dell’obolo che a molti pare pizzo. Pesano dagli ottocento ai milleduecento chili e rappresentano mestieri e quartieri, sono verniciate con oro zecchino. La vara è d’argento, pesa diciotto tonnellate ed è tirata da uomini alti come armadi che maneggiano cordoni di centocinquanta metri, uno di loro è morto calpestato. E poi c’è l’offerta della cera, trecento camion solo in un giorno. Due carrozze settecentesche con gli impiegati comunali travestiti da valletti con parrucca e livrea scortano la santa che vive nella cammaredda chiusa a doppia chiave, quella della curia e quella del municipio, con i suoi 400 smeraldi, le ametiste, i rubini, qualche diamante, la legion d’onore di Bellini. Il rito prevede la messa dell’aurora, il pontificale e, nella casa del buon Mario Ursino, i notabili si riuniscono come in una canzone di De André, «banchieri, pizzicagnoli, notai / coi ventri obesi e le mani sudate / coi cuori a forma di salvadanai…», cucina il padrone di casa, il balcone ha la forma circolare delle corone. Uno di loro ha comprato un disegno che un furbacchione era riuscito ad infilare in una mostra di Modigliani: c’è scritto Agata, la faccia è tonda, il collo è lungo, gli occhi sono senza pupille. È costato centomila euro il falso autentico più buffo del mondo. Ma Catania è la festa delle feste, l’enciclopedia hegeliana di tutte le feste e di tutte le processioni del mondo, il sottosopra dove persino le mamme cedono i figli.
E difatti a Randazzo, il 15 agosto, attaccano alla Vara — un fusto alto trenta metri — dieci bambini vestiti di raso azzurro e di seta rosa con delle corone di cartapesta in testa. E le mamme pagano la Chiesa madre (una vera gara con le buste) per avere il privilegio di vedere appeso il proprio angioletto di quattro o cinque anni che, arricciato dal parrucchiere, ovviamente piange, strepita e si dispera anche se, prima di partire, lo riempiono di caramelle e coprono di «viva l’Addolorata » il pianto che in casa coprono di baci. È impossibile non pensare alle selezioni per X Factor o per le veline, una riffa per comprare un posto non in paradiso e neppure in tv, ma nel blasone di paese.
Ad Enna i diavoli cantano uguali uguali ai muezzin, sono le geremiadi che in dialetto diventano lamintazzi, i gemiti di Cristo in croce ma accompagnati dalla banda del paese, fagotto e trombone e contrabbasso, la stessa di Totò, del maestro Scannagatti arabizzato dai dervisci danzanti alla Battiato.
Meno impressione fanno i famosi diavoli di San Fratello, il paese d’origine di Craxi. Incappucciati di rosso, scorrazzano per la città, urlando insulti e minacce non solo l’uno conto l’altro, grotteschi e irridenti disturbatori come gli scimuniti che fanno i gavettoni a Ferragosto e poi rombano con la marmitta segata. Oggi i diavoli carnevaleschi di San Fratello, che era comunità giudea, non sono più quelli di Sciascia e Scianna, «la parte più oppressa, più misera della popolazione che, mettendosi per quel giorno nel ruolo di un popolo non meno oppresso e perseguitato, si levava a beffeggiare, a insultare, a colpire e ad irridere al sacrificio della croce». Oggi non ci sono più ebrei e il diavolo devoto di quel bellissimo libro non somiglia neppure a Totò Riina ma ai bulletti delle Iene, ai tapiri di Staffelli.
Francesco Merlo, la Repubblica 9/7/2014