Vincenzo Visco, Il Sole 24 Ore 9/7/2014, 9 luglio 2014
LEZIONI AMERICANE PER L’EUROPA
Sono trascorsi più di 6 anni dall’inizio della crisi cominciata a fine 2007 ed è possibile trarre alcuni bilanci. La crisi ebbe inizio negli Stati Uniti, ma rapidamente si estese a tutti i Paesi sviluppati: nel 2009 si verificò il livello più elevato di caduta del reddito con punte superiori al -5% (in Italia -5,5%). Nel 2010 si verificò una ripresa grazie allo sforzo coordinato dei diversi Paesi. A partire dal 2011 le strategie di Usa ed Europa si divaricarono con la scelta europea a favore dell’austerità, mentre gli Usa continuavano a porre in atto una politica fiscale moderatamente espansiva e una politica monetaria aggressiva.
Se si confrontano i risultati a fine 2013 è facile verificare che il Pil americano è oggi di 6 punti più elevato di quello pre-crisi, che la disoccupazione ha iniziato a ridursi e si colloca intorno al 6%, che il sistema finanziario ha terminato la fase di deleveraging, e quindi l’economia sembra pronta per iniziare una nuova fase di crescita. Al contrario il Pil europeo è ancora inferiore a quello pre-crisi,la disoccupazione è prossima al 12%, le banche non sono state risanate, e la ripresa è lenta ed incerta anche in Germania. Il debito pubblico è cresciuto sia negli Usa (+40 punti) sia in Europa (di oltre 30 punti); negli Usa tuttavia l’aumento del debito è stato determinato sia inizialmente dalla crisi delle banche sia da un disavanzo di bilancio consistente. In Europa l’aumento del debito in molti Paesi appare come il risultato della recessione e delle politiche deflattive e non come la conseguenza di politiche fiscali poco responsabili. È apparso così evidente a chiunque sia dotato di buon senso che le teorie sulla cosiddetta «contrazione espansiva» non sono altro che l’espressione di un ossimoro. In Italia, per esempio, nel periodo 2009-2013 abbiamo realizzato manovre correttive che secondo le previsioni avrebbero dovuto migliorare il saldo primario strutturale di 6,8 punti di Pil, mentre a consuntivo esso è migliorato di soli 3 punti in termini strutturali ed è peggiorato in termini nominali (-1,1 punti), mentre il debito pubblico è aumentato di oltre 29 punti.
Questi risultati sono tali da mettere in discussione la strategia seguita finora in Europa e dovrebbero consigliare un drastico mutamento di indirizzo. Nonostante gli impegni verbali a favore dell’occupazione e della crescita e la maggiore flessibilità nell’interpretazione dei vincoli di bilancio concesse ad alcuni Paesi non sembra che ciò stia avvenendo, anzi a giudicare dalle posizioni espresse recentemente dal ministro delle finanze tedesco si ritiene che la terapia seguita finora abbia avuto successo nonostante che il paziente sia (quasi) morto! Anche le conseguenze politiche della incapacità di portare il continente fuori dalla crisi sono evidenti nella forte crescita in tutti i Paesi (con la parziale eccezione dell’Italia) di movimenti populisti in gran parte di estrema destra, che ricorda quanto accadde in Europa negli anni 30 del secolo scorso, quando gli effetti della grande depressione facilitarono la nascita, o rafforzarono, i governi autoritari in Italia, Germania, Spagna e Portogallo. Il pericolo esiste, non può essere ignorato, e dovrebbe consigliare radicali mutamenti di indirizzo.
L’Europa dovrebbe porre in essere politiche fiscali espansive, e partire dai Paesi in surplus, Germania in testa, che col suo surplus commerciale di 6-7 punti di Pil priva l’economia mondiale di una domanda corrispondente, e accettare un rallentamento del percorso di rientro dei Paesi in difficoltà di bilancio. Alla Bce inoltre dovrebbe essere consentito di realizzare politiche monetarie analoghe a quelle poste in essere dalla Fed o dalla BoJ anche per cercare di contrastare un evidente rischio di deflazione che ci si ostina ad esorcizzare.
E ancora, mentre negli Usa si discute sui rischi di una stagnazione di lungo termine dell’economia mondiale e su come farvi fronte, in Europa neppure esiste un dibattito in proposito, anche se quello sembra essere il nostro futuro.
Infine vi è un ultimo aspetto molto importante da considerare e riguarda il livello raggiunto dal debito pubblico in tutti i Paesi: negli Usa il debito pubblico ha superato il 100% del Pil in Europa il 90% con Paesi come l’Italia che supera il 133%, mentre il debito pubblico della Grecia supera il 170% (rispetto al 133% prima della crisi). Livelli di debito così elevati possono provocare stress finanziari, rallentamento della crescita o anche crisi di insolvenza e vanno gestiti con consapevolezza. Poiché come si è visto, le politiche di austerità possono peggiorare la situazione, anziché risolverla, occorre ricorrere a strategie differenti. Ancora una volta gli Stati Uniti sembrano più consapevoli del problema e lo stanno affrontando in maniera non diversa da quella seguita nel dopoguerra per smaltire il debito pubblico accumulato a causa degli eventi bellici: una strategia che fa leva su una crescita sostenuta, un tasso di inflazione adeguato e una "repressione finanziaria" in grado di mantenere artificialmente bassi i tassi di interesse nominali e possibilmente negativi quelli reali. In alternativa bisognerebbe porsi il problema di una ristrutturazione dei debiti condivisa e gestita congiuntamente dai Paesi della zona euro secondo proposte già avanzate da tempo, ma che non hanno fatto molta strada in pratica. In caso contrario vi è il rischio che la ristrutturazione venga imposta, almeno ad alcuni Paesi, dai mercati finanziari con effetti dirompenti.
L’unica cosa che l’Europa non può fare è continuare a ignorare i gravi problemi che ha di fronte sperando in una ripresa in grado di risolverli da sola, e che nella situazione attuale non è né prevedibile né probabile.
Vincenzo Visco, Il Sole 24 Ore 9/7/2014