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 2014  luglio 09 Mercoledì calendario

I LIMITI E I RISCHI DELL’ENNESIMA ESCALATION

La domanda è la stessa di tutte le altre volte: fino a dove si può spingere l’indiscutibile diritto di Israele a garantire la sua sicurezza? Perché come "Piombo fuso" fra il 2008 e l’inizio del 2009, e tutte le precedenti operazioni militari su Gaza, anche "Soglia di protezione" - così è stata chiamata dai militari la missione in corso - porrà Israele e i suoi amici nel mondo di fronte allo stesso dilemma.
Cinque anni fa morirono circa 1.200 palestinesi, due terzi dei quali civili; e 13 militari israeliani, quattro dei quali uccisi da fuoco amico. Almeno fino a ieri pomeriggio si registra la morte di 16 palestinesi: ancora dei civili fra loro. Un diritto fondamentale come la sicurezza non si misura sul calcolo delle vittime. Ma questo calcolo ha il suo peso, anche morale. Soprattutto perché il conflitto al quale stiamo assistendo è politico, religioso e fra due nazionalismi in competizione per lo stesso fazzoletto di terra. Ma soprattutto è una faida nella quale anche una sola vittima mette in moto la catena che porta a una guerra. Come Israele non può sopportare senza reagire la morte di un suo cittadino, così Hamas. E questa priorità supera ormai qualsiasi considerazione politica o strategica.
Il partito islamico non ha mai dimostrato di avere cara la popolazione civile di Gaza: è stato provato che spesso i razzi partono dai centri abitati; che i loro arsenali sono nel sottoscala delle case. Per pesante che ne sia il prezzo, la faida per loro è diventata un fortino imprendibile. Per quanto Israele bombardi o intervenga con la fanteria, la Striscia non potrà essere ridotta in cenere. Né militarmente occupata: è già stato fatto e non è servito a nulla. Cioè, è facile vincere la battaglia, impossibile la guerra.
Cinque anni fa Israele tenne sotto attacco Gaza per 23 giorni. Quando i soldati si ritirarono, la Striscia non aveva più un’economia e migliaia di abitanti non avevano più una casa. Poche settimane più tardi i Qassam ricominciarono sporadicamente a partire. Durante "Piombo fuso" Hosni Mubarak se ne andò in vacanza nella sua villa di Sharm el-Sheikh e Abu Mazen tacque: in Cisgiordania la vita era continuata normalmente.
Oggi le cose sono differenti in Medio Oriente. Il generale egiziano al-Sisi sta spendendo i suoi servizi segreti per mediare un cessate il fuoco. Ma se fallisse del tutto e "Soglia di protezione" mettesse in campo anche i 40mila fanti mobilitati, al-Sisi non potrebbe far finta di niente. Così Abu Mazen. Alle spalle degli israeliani schierati, la Cisgiordania non è più un luogo tranquillo: i segni premonitori di una nuova Intifada ci sono già stati. L’egiziano e il palestinese sono arabi moderati. Quale sarebbe la reazione nel resto del Medio Oriente? Regimi sotto assedio e milizie islamiche troverebbero la scusa perfetta per tornare a mettere gli occhi sul nemico comune.
Ripartendo le colpe fra israeliani e palestinesi per il fallimento del suo negoziato di pace, l’americano John Kerry aveva comunque chiarito che la colpa è stata più dei primi che dei secondi. Un accordo o quanto meno la continuazione della trattativa, avrebbe dimostrato la bontà delle ragioni dei palestinesi moderati: la pace aveva una possibilità. Fallito quel negoziato e tirando su Israele i suoi razzi, in qualche modo Hamas ha già vinto la sua guerra prima che la fanteria israeliana decida di avanzare.
Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 9/7/2014