Paolo Isotta, Corriere della Sera 9/7/2014, 9 luglio 2014
IL CONCERTO DI PEPPE BARRA, PASSIONI DI NAPOLI A VENEZIA
Peppe Barra era stato a Venezia nel 1967 quando interpretava la Matrigna nella Gatta cenerentola di Roberto De Simone: al Malibran; e poi varie volte al Goldoni: mai alla Fenice. Così ha debuttato alla sua età nel Massimo veneziano con un proprio concerto domenica.
La sala era gremita; il soprintendente Chiarot mi ha detto che tutti gli attori veneziani sono intervenuti in deputazione per festeggiare il loro più illustre collega e sin dal primo istante s’è stabilito un rapporto di amore fra Barra e il pubblico della Fenice.
Lo si può comprendere. A prescindere dal fatto che l’arte di Peppe Barra è universale, Venezia e Napoli sono, insieme con Palermo e Catania, le sole capitali italiane ove il popolo parli ancora la sua lingua e non il toscano: giacché nelle quattro città non si può definire la lingua dialetto , non solo per la morfologia e sintassi delle lingue, ma per l’aver esse una cospicua letteratura. Sarebbe così anche per il milanese, non fosse che i milanesi non esistono più e questa lingua a Milano da qualche generazione non la parla più nessuno. Quando, esattamente quarant’anni fa, io incominciai a Milano il mio lavoro di critico musicale, nel popolo, nella borghesia e nella nobiltà ancora le persone dai cinquant’anni a salire in milanese si esprimevano.
Inoltre i veneziani sono uno dei popoli più spiritosi del mondo; e riescono ad accordarsi sulla lunghezza d’onda dell’umorismo napoletano la differenza del quale dal veneziano sta solo nella maggior percentuale di paradosso e surrealismo. Delle canzoni comiche di Peppe ha apprezzato lo spirito; teneramente comico è Vurria (il desiderio d’un innamorato di farsi piccolo come un topolino per spiare non visto l’amata) ma il grosso dei pezzi eseguiti nel concerto comico non era. Uno di quelli forti per aprirlo è Jesce, sole , invocazione cinquecentesca al sole acché si manifesti e agisca; tragico diventa La pizzica per l’accelerazione costante del ballo delle tarantate sino a sciancare per esaurimento; patetico e delicato è Piccerè ; tragico e comico insieme è Aitane , la storia di un femmenella che si uccide per la disperazione d’esser schernito dal popolo e colla sua morte benefica il rione giacché escono i numeri del lotto smorfiati dal suo suicidio. Caso questo letterario anzichenò: a Napoli si è al massimo affettuosamente scherzato su ricchioni e femmennielli ma costoro non sono mai stati degli alieni rispetto alla società.
Altra canzone dimostrante il meraviglioso animo del popolo napoletano è quella di E. A. Mario del 1945, Tammorriata nera , dedicata ai piccoli di razza africana nati nei vicoli perché le napoletane dagli americani coloured erano state possedute o violentate (laddove solo violentate erano state dai terribili marocchini francesi); e accettati subito come bimbi nostri. Storia attualissima, ché solo pochi mesi fa un giovane taxista mi disse che con la sua famiglia cantava. «Quanti figli hai?». «Tre, uno è nivuro!» («Uno è nero!»). Il bimbo era stato abbandonato dopo il parto da una prostituta fuggita e lui l’aveva raccolto e adottato. Questi africani che popolano i nostri vicoli e in napoletano si esprimono sono una benedizione.
Infine un omaggio al grande Giorgio Gaber con due sue canzoni adattate in napoletano.
Il pubblico ha seguito Peppe con un crescendo d’entusiasmo; per come canta con legato e meravigliosa intonazione, per la sua mimica e i suoi intermezzi improvvisati; ed ha anche apprezzato la sua orchestra tutta napoletana il culmine di eccellenza della quale è un giovane percussionista, il geniale Ivan Lacagnina.
E tanto i veneziani amano Peppe Barra che camminare con lui era impossibile: sì numerosi coloro che volevano salutarlo, stringergli la mano, chiedergli l’autografo.