Guido Santevecchi, Corriere della Sera 9/7/2014, 9 luglio 2014
IL TIMORE CHE CHIEDERE DEMOCRAZIA POSSA ROVINARE GLI AFFARI CON LA CINA
Il rapporto trimestrale «Global Equity Insights» della Hsbc pubblicato lunedì si compone di 84 pagine. Di questi studi ne arrivano tanti con le email e spesso si archiviano senza leggerli. Questo ha fatto notizia, al di là dell’intenzione degli analisti della grande banca britannica. La frase era a pagina 23: «Riduciamo il mercato azionario di Hong Kong a underweight sulla base del flusso di notizie che arriva. Occupy Central , campagna per ottenere una più ampia democrazia, potrebbe guastare i rapporti con la Cina e danneggiare l’economia della City».
Per la verità, la gente di Hong Kong si sta battendo per difendere quel che resta della democrazia nella loro città: si è appena tenuto un referendum informale per sollecitare libertà di scelta dei candidati nelle elezioni del 2017 al quale hanno partecipato 800 mila dei sette milioni di cittadini del territorio ad amministrazione speciale. E il primo luglio in centinaia di migliaia hanno marciato per sostenere la libertà di parola, di stampa, un sistema giudiziario indipendente: tutte eredità negoziate tra Londra e Pechino prima della restituzione della colonia alla Cina nel 1997. Tutte forme democratiche negate al resto dei cinesi (che sono quasi un miliardo e 400 milioni) e ora sotto assedio.
La Hsbc, fondata proprio nella colonia come Hong Kong and Shanghai Banking Corporation nel 1865, ora teme che chiedere più democrazia possa rovinare gli affari e di fatto invita a vendere (questo leggono gli esperti quando si definisce un mercato underweight ). La grande banca è stata subissata di proteste sui social network , che a Hong Kong non sono censurati, a differenza del continente cinese. Riportiamo quanto ha twittato con humour britannico mr Gregor Stuart Hunter (@gregorhunter): «L’ironia è che è dura andare underweight a Hong Kong senza vendere Hsbc, la componente più grossa dell’indice azionario». In effetti la gloriosa istituzione di credito nel 2103 ha prodotto a Hong Kong 8,1 miliardi di dollari di profitti pre-tasse, il 36 per cento del suo totale sui vari mercati del mondo. In Cina, Hsbc ha prodotto altri 4,2 miliardi: queste cifre spiegano la sua doppia ansia di vedere Hong Kong tranquilla e mantenere ottimi rapporti con il governo centrale di Pechino.
Le critiche su Twitter hanno però spinto la banca a correggere il rapporto trimestrale. «Riduciamo la valutazione a underweight per il rischio del mercato immobiliare, il rallentamento degli arrivi di turisti dalla Cina, il collegamento del mercato locale con i tassi d’interesse Usa che la Federal Reserve potrebbe alzare l’anno prossimo». La democrazia finisce in fondo al ragionamento: «Notiamo anche preoccupazioni recenti riguardo a Occupy Central ».
Il Financial Times osserva che la banca si sarebbe potuta risparmiare la gaffe . Ma forse, più che una sintesi incauta da parte degli analisti, si è trattato di gioco sporco.
Il mese scorso è venuto fuori che Hsbc e Standard Chartered hanno smesso di fare pubblicità sull’Apple Daily , quotidiano hongkonghese schierato a favore del movimento per la difesa della democrazia e molto critico con Pechino. Le due banche sostengono di aver agito su basi di ritorno commerciale, ma dal giornale dicono che il consiglio è arrivato dalla Cina. E ancora: sulla stampa locale è comparso un avviso a pagamento firmato dalle Camere di Commercio di Canada, India e Italia che si opponevano alla protesta di Occupy Central (che minaccia di bloccare il distretto finanziario della City se Pechino non lo ascolterà). L’offensiva più forte l’hanno lanciata il 27 giugno le Big Four della revisione dei conti: PricewaterhouseCoopers, KPMG, Deloitte e Ernst & Young hanno comprato un bello spazio sui giornali per ammonire che Occupy Central «porta instabilità e caos», perciò multinazionali e investitori potrebbero spostare i loro affari fuori da Hong Kong.
L’intervento del capitalismo occidentale, evidentemente sensibile al richiamo del capitalismo di Stato cinese, non promette niente di buono per gli ottocentomila hongkonghesi che hanno votato nel referendum. Dopo la marcia pacifica e ordinata del primo luglio c’è stata un’ondata di arresti per turbamento dell’ordine pubblico: lo stesso linguaggio usato per condannare i dissidenti in Cina. Tra l’altro, molti giovani manifestanti di Hong Kong dicono di volere un governo davvero eletto a suffragio universale per poter premere per la giustizia sociale e contro la crescente disparità che nell’ex colonia crea la più alta concentrazione di miliardari dell’Asia e una massa di poveri senza prospettive.
A giugno Londra ha ricevuto con tutti gli onori il primo ministro cinese Li Keqiang. Dietro sua richiesta (imposizione) gli è stato organizzato anche un tè con la regina al castello di Windsor. Non risulta che David Cameron abbia sollevato la questione della basic law , le regole democratiche negoziate ai tempi della signora Thatcher per garantire che Hong Kong mantenesse la sua eccezionalità all’interno della Repubblica popolare cinese per cinquant’anni ancora. Gli affari prima di tutto.
Le ultime notizie arrivano da Macao, ex colonia portoghese restituita nel 1999. Anche qui il sistema di selezione del governatore è pilotato da Pechino, ma a maggio c’è stata una marcia per la democrazia e ora tre movimenti vogliono organizzare un referendum come quello di Hong Kong. A Macao ci sono 35 case da gioco che incassano 45 miliardi di dollari l’anno. Chissà se i casinò scenderanno in campo come banche e multinazionali a Hong Kong «per la stabilità».